“Chi non ha pretese, non ha neanche dispiaceri”, una frase di Pier Paolo Pasolini che può rendere bene la filosofia del Def enunciata dal governo Meloni ma che alla prova della realtà potrebbe anche non reggere. Ad una prima lettura del Def, infatti, non colpisce tanto la “prudenza” dello stesso, quanto la mancanza di obiettivi strategici, quelli in grado di mantenere in vita le necessarie opportunità di crescita. In uno scenario economico e finanziario internazionale nel quale la stagflazione è il nuovo rompicapo da risolvere, posizioni attendiste finiscono per assomigliare in modo allarmante ad occasioni perdute.
Anche le cifre indicate nel Def appaiono più un esercizio contabile che la conseguenza di scelte economiche che diano risposte alle necessità che oggi inchiodano l’economia italiana, la produzione, la tenuta sociale ha molte, forse troppe, incertezze.
Certo il Fmi scommette su una crescita dello 0,7% non lontano dall’1% del Pil. Anche se, nei tre anni considerati, la modestia degli incrementi del Pil rivelano più una inquietudine senza soluzioni di fronte alle ben note difficoltà in cui versano l’Europa e la competizione mondiale, che speranze fondate di tenere davvero dritta la barra della nave Italia.
Ma sono più i “vuoti” presenti nel Def che le affermazioni tutte da verificare che dovrebbero preoccupare. Così come non è rassicurante la frase del Ministro dell’Economia seconda la quale non si può puntare solo sulle risorse del PNRR ma servono investimenti e riforme. D’accordo, ma dove sono le leve pubbliche che favoriscono una ripresa di fiducia, una continuità nella erogazione del credito in una fase di tassi di interessi crescenti, senza linee di politica industriale ben definite?
Il Def sembra più una sorta di stop and go in attesa di futuri sviluppi. Ma in tal modo quella stagione di riforme sempre più necessarie segna il passo e fa indietreggiare l’Italia anche nel contesto europeo. Basta enumerare i punti interrogativi rimasti tali per suffragare questa considerazione: non c’è alcuna attenzione alla riorganizzazione della sanità pubblica, come i precedenti del tremendo periodo Covid richiederebbero. La sensazione corrente, invece, è di un settore alle prese con ritardi e problemi accresciuti che fanno presagire situazioni di collasso possibile in futuro. Anche la questione fiscale è avvolta nelle nebbie delle intenzioni mentre va osservato che a livello locale l’imposizione fiscale non potrà sicuramente regredire ma in alcuni casi aumentare. Del resto, ogni traccia di interventi sul terreno della lotta alla evasione fiscale è sparita con il dubbio che si proceda se le ristrettezze di bilancio proseguiranno sulla strada facile ed ingannevole, ma soprattutto inaccettabile, dei condoni senza riforme. La previsione di una leggera riduzione del carico fiscale complessivo da questo punto di vista non può assolutamente tranquillizzare, anzi mostra il sentiero stretto nel quale pare muoversi il Governo. Ed è un sentiero nel quale le iniquità fiscali possono solo crescere.
Anche lo scaricare le colpe sul superbonus del 110% appare francamente giustificazione assai fragile in assenza di scelte chiare sulle politiche del lavoro, della sicurezza del lavoro, della transizione ecologica, della scuola con annessa l’esigenza di garantire le professionalità adeguate in un periodo di continua evoluzione tecnologica.
Nessuno si aspetta proclami roboanti, ma passi in direzioni concrete e capaci di aprire nuovi orizzonti sì, vista la conclamata vocazione di questo Governo ad attuare con notevole ambizione un programma di cambiamenti profondi. Almeno arrivassero buone nuove sul fronte del lavoro. L’unico segnale positivo, ma del tutto insufficiente, riguarda il taglio del cuneo fiscale per tre miliardi ai redditi medio-bassi. La sottesa speranza di evitare in tempi di forte inflazione una impennata dei salari fornisce la misura della mancanza visione politica su quella che dovrebbe essere da parte dello Stato di una promozione di lavoro stabile, qualificato, retribuito in modo tale da evitare fughe all’estero, collegato ad input in grado di rilanciare la produttività. Un disegno di tale tipo appare infatti del tutto sconosciuto nelle misure previste dal Def.
In realtà l’attenzione rimane quella iniziale: accontentare le spinte contraddittorie della maggioranza, non inimicarsi alcuni settori sociali ritenuti fondamentali come il lavoro autonomo, relegare le istanze sindacali al campo delle promesse del tutto generiche (ed in gran parte disattese), proseguire in percorso a vista che tradisce nei fatti le velleitarie enunciazioni di un governo riformatore di legislatura.
La dimostrazione di questa riflessione si può trarre anche da alcune omissioni gravi presenti nel Def: il rinvio ad affrontare il tema previdenza che per ora ha aggravato la condizione di milioni di pensionati senza mutare in meglio l’assetto pensionistico che richiederebbe invece un confronto con le parti sociali di ben altra “intensità”. Ma si può anche sottolineare il paradosso relativo al pubblico impiego: si è tentato di ottenere consenso “elettorale” con il rinnovo del contratto della scuola in tempi non biblici, ma poi si è ripiegato sulla constatazione che per i rinnovi del settore pubblico le risorse non ci sono.
Salvo smentite il 2023 sarà dunque un anno nel quale la politica economica si trascinerà cercando di evitare tracolli sociali, sempre possibili purtroppo, scongiurando il pugno di ferro dell’Europa, ma di fatto rinviando ancora una volta tutti i nodi dello sviluppo. Resta da vedere l’atteggiamento delle opposizioni che sono di fronte ad un bivio: o criticare l’azione del governo ma senza rinunciare ad un “consociativismo” negato a parole ma di fatto esistente; oppure fornire al Paese una diversa lettura, realistica ma coraggiosa, delle priorità e dei progetti sui quali fondare una nuova credibilità politica ed una altrettanto nuova speranza che si possa cambiare.
Le avvisaglie non sono delle migliori. Ma ad esempio la vicenda delle nomine dovrebbe far riflettere: gli ultimi grandi colossi economici del Paese indicano un trasferimento di potere sempre più evidente dal passato equilibrio ad una “occupazione” della destra politica. I nomi possono anche non essere molto diversi dal passato, ma …le consegne sì. Era prevedibile e sta accadendo. Come può una opposizione di sinistra riformista rispondere a questo inarrestabile cambio di casacca. Non sarebbe utile un atteggiamento di…vedovanza. La perdita di consenso del riformismo nel Paese non è forse collegabile anche alla lontananza dai problemi reali per preferire la vicinanza agli schemi di potere ed a sudditanze alla finanza che non hanno favorito la ripartenza economica?
Sarebbe forse più saggio ritrovare alcuni valori originari del riformismo, con un più autentico legame con la centralità del valore lavoro e con una maggiore apertura al confronto ed alla collaborazione con le forze sociali. E va recuperato quello spirito riformatore che alla lunga risulta più convincente degli slogan o delle invettive.
La congiuntura, anche dalla osservazione del Def, conserva comunque insidie di ogni genere e non induce all’ottimismo. Il dovere di saper risolvere i nostri problemi non cancella la constatazione che non tutto dipende da noi. Ma, a questo proposito, al di là delle differenze marcate sul piano politico, l’Italia avrebbe tutto l’interesse a muoversi in Europa con una determinazione più risoluta da sistema Paese. Oggi non è fra i protagonisti, domani potrebbe essere addirittura un Paese che si può…dimenticare nello scacchiere internazionale. Ed è una prospettiva che va evitata ad ogni costo.
Paolo Pirani
Consigliere Cnel