L’unica certezza al momento è la generale incertezza. Il voto di fine febbraio ci ha messi in una situazione paradossale. Non si sa quale maggioranza politica potrebbe aspirare a governare il paese, non si riesce a immaginare quale possa essere il leader di domani. Non abbiamo nemmeno orizzonti temporali certi davanti a noi. Potremmo tornare a votare tra tre, o sei, o dodici mesi. Sicuramente questa legislatura, che non è nemmeno partita, non durerà i canonici cinque anni previsti dalla costituzione. E questo è un danno oggettivo, molto grave, di cui rispondono i partiti politici. Un danno grave perché in questa congiuntura economica, arrivati al quinto anno di crisi e senza riuscire a intravvedere l’uscita dal tunnel, come invece accade ad altri paesi europei nostri competitori, quello che servirebbe sarebbe proprio un periodo di buon governo, che duri il più a lungo possibile e consenta di aggredire quei problemi strutturali che ci impediscono la crescita.
Ci servirebbe un volume cospicuo di investimenti industriali, ma non possiamo criticare gli imprenditori se in questo momento preferiscono non esporsi, perché senza certezze di alcun tipo non è possibile costruire piani di investimento di una qualche consistenza. Ma zero investimenti significa una stasi della produzione, un calo ulteriore dell’occupazione, una discesa ancora più accelerata del potere di acquisto, quindi del tenore di vita. L’Istat ci informa che le dimensioni della povertà si stanno pericolosamente allargando nel nostro paese, ma date le premesse null’altro avrebbe potuto accadere.
Un danno grave, quindi, da addebitare interamente alla classe politica, presa nel suo insieme. Perché non è stata in grado di rispondere alle richieste di rinnovamento che, giuste o sbagliate che fossero, venivano dalla gente comune, dando così spazio alla protesta che ha portato all’attuale situazione di stallo. Il Movimento 5 stelle altro non è che il normale sfogatoio di chi non si sente rappresentato sufficientemente dai tradizionali partiti politici: questi sfogatoi sono sempre esistiti, solo che di solito raccoglievano un consenso in percentuali trascurabili, il partito di Grillo, pur non offrendo una strategia alternativa compiuta, se non in senso distruttivo, è stato votato da un italiano su quattro e tutto fa credere che questa percentuale sia destinata a crescere nelle prossime consultazioni, anche considerando la deprecabile attitudine degli italiani di salire velocemente sul carro del vincitore.
In questa situazione di difficoltà le speranze che qualcosa possa riaggiustarsi sono davvero poche e il timore che per l’economia e il lavoro non ci sia da prevedere altro che un peggioramento al contrario tende a salire. D’altronde, se le forze politiche hanno le loro responsabilità, le parti sociali non sembrano avere la forza nemmeno di avanzare una proposta che conduca a un alleggerimento della situazione. Il sindacato è sempre più diviso, le rappresentanze imprenditoriali non sembrano in grado di agire in controtendenza. Nell’ultimo anno e mezzo, quanto è durato il governo Monti, il dialogo sociale è stato brutalmente azzerato, ma le parti sociali non sono state in grado mai di avanzare una proposta che le facesse tornare protagoniste. Anche quando ne avrebbero avuto la possibilità, sono mancate, non riuscendo a ottenere alcunché, neppure quando si legiferava di materie di loro stretta competenza, come la riforma previdenziale o quella del mercato del lavoro.
Il pericolo, lo ha messo in evidenza con la consueta capacità Dario Di Vico sul Corriere della sera, è che la palingenesi che si preannuncia della politica finisca per spazzare via anche le rappresentanze sociali. E questo sarebbe un colpo grave alla democrazia, perché le parti sociali in questo paese hanno sempre svolto un compito importante al quale non possiamo rinunciare. Se sindacati e associazioni imprenditoriali tornassero a essere solo rappresentanze di parte mancherebbe una dimensione importante, mancherebbe la capacità, che le parti sociali hanno sempre avuto, di portare avanti interessi collettivi e non quelli di piccoli o grandi orticelli.
Per evitare questo danno le parti sociali possono solo cercare di accelerare il loro processo di rinnovamento, ammesso che questo sia mai partito. Il primo passo dovrebbe essere l’accordo sulla rappresentanza e la democrazia sindacale, per sapere finalmente ciascuna forza chi rappresenta, come si fanno i rinnovi contrattuali, come e quando un accordo può valere per tutti. Regole minime, sulle quali, nonostante accordi importanti raggiunti negli anni e mai applicati, le parti sociali continuano incredibilmente a litigare invece di mettersi una buona volta d’accordo.
Massimo Mascini