I tempi sono frenetici, sta succedendo di tutto, ma questo non deve impedire di vedere le grandi svolte quando ci sono. E questa è la settimana di un autentico ribaltone. Il caos e il tumulto d’oltre Oceano non c’entrano, se non, forse, tangenzialmente. La Svolta è qui, dietro l’angolo, qualche centinaio di chilometri a nord. Al di là delle Alpi, la Germania sta per cambiare d’abito, dal saio allo chiffon, o, forse, addirittura, religione. E, se le promesse verranno mantenute e il Parlamento tedesco, a metà settimana, farà quel che ci si aspetta, l’Europa non sarà più la stessa. Non si è la locomotiva di un intero continente per caso: se la locomotiva riparte su un nuovo binario, il resto del treno le va dietro. Senza esagerare: cambiano radicalmente le prospettive dell’economia tedesca, di quella italiana, di quella europea, dei mercati finanziari e anche del confronto con l’America. Chi ha inclinazioni filosofiche può far osservare che è tutto frutto di pura casualità: la vittoria e l’attivismo di Trump e della sua America, un risultato elettorale tedesco che ha consegnato ai partiti una strada senza alternative. Poco importa: quello che neanche i filosofi possono negare è che si aprano scenari inediti e inaspettati.
Senza entrare nei dettagli. I partiti principali della politica tedesca hanno concordato di far saltare il vincolo che obbligava il bilancio statale a stare (sostanzialmente) in pareggio, aprendo la strada ad un finanziamento (udite! udite!) via debito. E, parallelamente o, meglio, conseguentemente, di varare un piano di investimenti pubblici nazionali per 500 miliardi di euro, ovvero per l’equivalente di due terzi dell’intero piano di investimenti post-Covid che fu definito, a suo tempo, il “bazooka di Ursula”, ma che valeva per tutta la Ue e non per un solo paese. Tutt’e due le decisioni hanno conseguenze a valanga.
Anzitutto, per la finanza pubblica, tedesca e non. Sul piano dei principi, per cominciare. Il Patto di stabilità appena varato a Bruxelles è pieno di chiavistelli e manette, presenti e future, sui bilanci dei singoli paesi, reclamate e pretese con inflessibile determinazione, in prima persona, dall’allora ministro delle Finanze tedesco, Lindner (il quale, hanno notato molti con soddisfazione, a questo giro non è neanche riuscito a rientrare nel Bundestag). Il risultato di questi vincoli è che, sia pure senza annunci pubblici, l’economia europea si avvia inevitabilmente verso una stagione di nuova austerità, grazie ad una sorta di cintura di castità che obbliga tutti a contenere comunque la spesa pubblica. Ora, la Commissione, anche in prospettiva riarmo, propone di sospendere temporaneamente questi vincoli. Ma è il rappresentante tedesco (che, probabilmente, è lo stesso funzionario di prima) a rivendicare adesso una revisione permanente dei vincoli del Patto, come neanche la più sfegatata delle colombe.
Il primo effetto della calante idiosincrasia sul debito è, per i cultori della materia, la perdite di rilevanza del totem dello spread. Se anche i tedeschi si indebitano, smettendo di essere i paragoni di virtù, la differenza dei rendimenti fra Bund e Btp non è più il termometro decisivo della salute della finanza pubblica italiana. E’ inutile, quindi, stare qui a congratularsi perché, da settimane, lo spread è fermo alla rassicurante quota 110. Quel che c’è sotto (e non è affatto rassicurante) è che la fissità dello spread nasconde che sia i rendimenti del Btp che quelli del Bund stanno salendo. Nel mese di marzo, il costo vero del titolo italiano (il parametro che conta di più) è salito dal 3,5 quasi al 4 per cento, nonostante la politica di ribasso dei tassi della Bce.
Tuttavia, la maggiore tolleranza, anche psicologica, sul debito significa che la pressione dei mercati sarà, probabilmente, meno intensa, aprendo lo spazio ad una politica più espansiva, che spinga l’economia – italiana ed europea – fuori dalle secche di questa lunga paralisi post inflazione e post sbornia dei tassi Bce.
Da questo punto di vista, se la tolleranza sul debito fornisce il contesto adatto, la leva decisiva è il piano di Berlino per 500 miliardi di euro di investimenti. Sul piano qualitativo (ovvero sull’efficacia dei singoli investimenti per rendere più moderna e competitiva l’economia europea) certamente. Ma, a questo punto, conta quasi di più, nell’immediato, il puro peso quantitativo di 500 miliardi di investimenti. Per anni, si è rimproverato alla Germania una politica tutta centrata sulle esportazioni, a danno della domanda interna. Se, ora, il gigante tedesco comincia ad alimentare la sua domanda, invece di destinare il grosso delle risorse alle esportazioni, la scossa toccherà non solo l’industria tedesca, ma anche quella del resto d’Europa: una iniezione vivificante in una economia oggi asfittica, proprio per la debolezza della domanda. La cosa riguarda da vicino l’Italia, profondamente integrata nei cicli di fornitura dell’industria tedesca, ma in generale tutti i paesi europei. Trump si troverà di fronte un’Europa più tosta del previsto.
Maurizio Ricci