Si parte da lontano, ma si arriva in fretta a parlare di oggi e forse anche di domani. Marco Cianca, sul Corriere della Sera, prende spunto da un libro per parlare della ormai antica ‘’cinghia di trasmissione’’ tra sindacato e partito, nello specifico tra Cgil e Pci. Il libro è “La questione Capitale”, di Ilaria Romeo e Giuseppe Sircana, per Ediesse; la vicenda quella delle travagliate elezioni capitoline del 56, con lo scontro tra Giuseppe Di Vittorio e Palmiro Togliatti: il segretario della Cgil, il più votato nella tornata precedente del ’52, aspirava, giustamente, ad essere capolista; ma il segretario del partito decise di privilegiare l’apparato, mettendolo solo terzo dopo due dirigenti di partito ‘’puri’’. Ricorda Cianca: “Il segretario generale della Cgil, amareggiato e umiliato, protesta, scrive ai dirigenti del Pci, parla di «metodo caporalesco e burocratico», teme di essere screditato, lui e il sindacato che guida. Chiede di farsi da parte, di ritirare la sua candidatura. Alla fine gli risponde Palmiro Togliatti, con una lettera breve e sferzante nella quale gli dice che avrebbe fatto meglio a non lamentarsi. A Di Vittorio non resta che piegarsi a quello che lui stesso definisce il «dovere di obbedire» alla ragione di partito. Morirà l’anno successivo, pieno di dolore e di delusione, piegato dal nuovo scontro con il Migliore sui fatti d’Ungheria”.
Oggi, osserva ancora Cianca, “non è nemmeno pensabile che Matteo Renzi obblighi Susanna Camusso a scendere nell’agone politico per attrarre voti a sinistra. Il Pd non è il Pci e la Cgil dagli anni Cinquanta ha mutato pelle e sostanza. La cinghia di trasmissione tra il partito e il sindacato è rotta da tempo”. Ma il percorso è stato lungo e tutt’altro facile. Basti pensare a quello che significò il referendum sulla scala mobile, indetto dal Pci nel 1984: “Luciano Lama subì a malincuore questa scelta che portò alla rottura con Cisl e Uil e alla spaccatura della stessa Cgil, con la componente socialista favorevole alle decisioni del governo Craxi. L’esito fu una bruciante sconfitta. Il pomeriggio del 10 giugno 1985, quando dalle urne uscì la vittoria dei no all’abrogazione del decreto, lo stesso Lama amareggiato e preoccupato ripeteva ai cronisti presenti: «Aiutateci a ritessere la tela, non a stracciarla del tutto». La tela di rapporti con gli altri sindacati fu ritessuta piano piano”.
Fin qui, è storia. Ma ecco la cronaca: l’ultimo direttivo della confederazione, il 22 marzo, ha deciso di avviare dal 9 aprile la raccolta di firme per la presentazione di una proposta di legge contenente la «carta dei diritti universali del lavoro». Ma verranno anche lanciati tre referendum che vanno ad impattare il Jobs act. “Una sfida al governo – scrive Cianca- manna per il segretario della Fiom Maurizio Landini che cerca di tirare la coperta sindacale il più a sinistra possibile. E così durante la campagna per le elezioni amministrative i banchetti della Cgil toglieranno un po’ di attenzione alle piazze dei candidati. Un tempo le camere del lavoro erano un volano formidabile per la raccolta dei consensi elettorali, come fu per Di Vittorio. Ora tutti in ordine sparso. Nella segreteria della Cgil non risultano iscritti al Pd. Lo scontro tra Susanna Camusso e Matteo Renzi assume forme diverse da quelli tra Di Vittorio e Togliatti, tra Lama e Berlinguer, tra Cofferati e D’Alema. L’autonomia sembra a tutto tondo. Resta da chiarire se l’assenza di legami con i partiti comporti la scomparsa dal dibattito politico. Rischia di essere un silenzio assordante. Ha detto Vittorio Foa: «Liberiamoci dalle residue illusioni sull’efficacia di un sindacalismo che non parla di politica».
N.P.