Non è vero che l’Italia è il paese dei mezzemaniche, che i Checco Zalone imbucati e incistati negli uffici statali o comunali sono il simbolo del lavoratore italiano medio, mentre negli altri paesi l’impiegato pubblico è una figura marginale e il mercato del lavoro si muove al ritmo e al passo dell’impresa privata. Non è vero e non era vero neanche prima.
Facendo il confronto con Germania e Francia si scopre, anzi, che è vero il contrario. E, forse, uno dei problemi della lenta e farraginosa burocrazia italiana è che è anche sotto organico. Semmai, rispetto ai due altri grandi paesi europei, siamo il paese, se non dei saltimbanchi e dei suonatori di mandolino, degli attori, dei restauratori, magari delle comparse del “Grande Fratello”.
Gli ultimi dati sfornati da Eurostat disegnano una mappa non scontata della distribuzione degli occupati nei maggiori paesi europei. Alcune indicazioni erano largamente attese. A cominciare dal crollo dell’occupazione agricola, già ridotta da decenni di esodo dalle campagne. Negli ultimi venti anni, è scesa ancora del 40 per cento, sia in Italia, che in Germania e Francia. Dalla Baviera in su è ormai ai minimi termini: 2,1 per cento dell’occupazione globale nel 1996, 1,4 per cento nel 2016. In Francia, dove pure la lobby degli agricoltori ha un peso notevole nella politica nazionale e la campagna occupa un posto importante nell’immaginario collettivo e nella cultura popolare, i posti di lavoro sono scesi dal 4,3 per cento al 2,7 del totale. In Italia, c’era più gente in campagna prima e ne è rimasta di più: dal 5,5 per cento del 1996, siamo scesi al 3,7 per cento.
Più che un ritorno, statisticamente impercettibile, dei giovani sui campi, il maggior peso dei contadini sulla forza lavoro, rispetto alla Francia, si deve ad una struttura più frammentata dell’impresa agricola, ma, probabilmente, anche alla diversa intensità di lavoro nelle diverse produzioni: più pomodori, da noi, più formaggi al di là delle Alpi.
Netto, ovunque, il ridimensionamento dell’industria manifatturiera. Tanto più sensibile, quanto era minore il peso iniziale. In Francia, gli addetti sono scesi di un terzo negli ultimi venti anni (dal 14,6 al 9,5 per cento). In Italia, di un quarto (dal 20,8 per cento del 1996 al 15,6 di oggi). In Germania, la locomotiva industriale europea, di meno di un quinto: dal 22,6 al 18,6 per cento del totale degli occupati.
E’ più o meno simile, invece, nei tre paesi, il peso del terziario tradizionale: commercio, trasporti, ristoranti, alberghi occupano hanno aumentato marginalmente gli addetti e offrono fra il 21 e il 25 per cento dei posti di lavoro. E, sia in Francia, che in Germania e in Italia, è esploso il numero di chi offre servizi professionali, dove si contano avvocati, ingegneri e medici, ma anche idraulici e fisioterapisti. Dal 7,1 per cento del 1996 al 12,2 per cento di oggi, in Italia. Dal 10,6 al 14,9 per cento venti anni dopo in Francia. Dal 7,5 per cento al 13,5 per cento in Germania. Se si volesse fare un conto molto semplicistico, si potrebbe dire che gli operai si sono trasformati in parrucchieri.
Ma la differenza più vistosa fra i tre paesi riguarda l’impiego pubblico: statali, scuola, welfare. Negli ultimi venti anni, l’Italia ha tagliato con decisione in questo settore, soprattutto bloccando gli organici, probabilmente al di sotto del livello dell’efficienza. Statali e assimilati sono passati dal 20,1 per cento degli occupati al 18,9 per cento. Niente di simile altrove. In Germania, dove già gli impiegati pubblici erano di più in partenza (22,9 per cento della forza lavoro) sono cresciuti al 24, 6 per cento. E la Francia, paese di centralismo, ma anche di burocrazia efficiente, pare un altro pianeta: gli impiegati pubblici erano il 30,4 per cento del totale e, in venti anni, sono scesi solo al 30,1 per cento. Di fatto, in Francia e in Germania, la quota maggiore di lavoratori prende la busta paga dallo Stato o dagli enti pubblici, mentre in Italia i posti di lavoro si trovano soprattutto nel commercio e nei trasporti.
L’altra differenza è nel comparto dell’arte e dell’intrattenimento, che offre il 6-7 per cento di posti di lavoro in Francia e in Germania, mentre in Italia viene subito dopo commercio, Stato e industria: nel settore gli occupati erano l’8,9 per cento del totale nel 1996. Sono saliti al 10,9 per cento venti anni dopo.
Maurizio Ricci