1. Il lavoro che c’è va difeso e tutelato. A partire da quello messo in discussione e trasformato dalla pandemia. Con strumenti ordinari e straordinari. Non è possibile una ripartenza economica che distrugga o svalorizzi lavoro. Ma il lavoro che non c’è va creato ex novo. Con politiche economiche adatte e finalizzate. Il lavoro non può essere un effetto casuale dei provvedimenti economici. Deve essere una finalità primaria. Altrimenti la ripresa non sarà stabile (oltre che essere iniqua). Non è accettabile una ripresa economica che continui a disperdere le competenze dei giovani e non impieghi più donne. Ogni progetto realistico e necessario di cui si parli nei prossimi giorni a Villa Pamphilj va misurato in quante risorse sono disponibili e quanti posti di lavoro genera. Non vi sono al momento altri termometri con cui valutare le intese tra istituzioni di governo, sindacati e imprese. Se si vuole una ripresa stabile e meno diseguale.
2. Naturalmente, i nuovi posti di lavoro derivano da quante nuove attività (e nuove imprese private e pubbliche) saranno avviate. E da quanti investimenti (privati e pubblici) saranno messi in campo. Un conto sono i necessari provvedimenti di emergenza che impiegano le risorse esistenti, un conto lo sviluppo che ne crea di nuove. Anche la quadratura dei conti e dei bilanci cambia a seconda della scelta che si fa. La rendita non produce grandi entrate, per dirla in breve.
3. Toccherà poi a sindacati e imprese decidere le condizioni contrattuali dei nuovi lavori. Su questo punto converrebbe, a mio parere, uno sforzo innovativo. Almeno per la fase di avvio della ripresa. Sarebbe utile un orario di lavoro ridotto accompagnato da momenti di formazione per i nuovi lavori. Sarebbe forse opportuno, per creare più domanda di lavoro anche nelle aziende esistenti, accompagnare i nuovi ingressi con part time in uscita. Part time sostenuti economicamente, in cambio di attività formativa rivolta ai nuovi ingressi. Non giovani contro vecchi (o viceversa) ma competenze che vengono trasferite dai più esperti ai meno esperti. Ci sono stati negli anni scorsi esempi di questo tipo in alcuni processi di riorganizzazione sia di imprese private che di enti pubblici. E hanno funzionato positivamente valorizzando e stabilizzando il nuovo lavoro.
4. Il Piano Colao è pieno di intenzioni e progetti condivisibili almeno sulla carta. Non si capisce bene chi debba fare cosa. Può darsi che questo sia un limite del mandato attribuito al gruppo tecnico, piuttosto che non un difetto del suo lavoro. Ma sembra mancare un quadro di programmazione certo: quante e quali risorse per quali progetti prioritari. Nello specifico mi limito a segnalare 4 limiti, intrecciati fra loro, a partire dalle materie di cui mi occupo.
Primo: nelle pagine di Colao non c’è il tema anziani. Mi pare una dimenticanza grave. Non tanto e non solo perché gli anziani crescono di numero, cresce la loro fragilità, come abbiamo visto, e necessitano di maggiore aiuto. Quanto perché a partire dai bisogni degli anziani soli e delle loro famiglie va trasformato il Welfare della salute e dell’assistenza. Gli anziani rappresentano un campo di investimento per l’innovazione, non di spesa a perdere.
Secondo: si parla di nuove infrastrutture (stradali, ferroviarie, telematiche) e ben venga. Ma non si parla di una urgente rigenerazione delle città e del territorio. Della necessità non solo di riqualificare le periferie e recuperare i centri minori e le aree interne quanto di ridiscutere le tipologie abitative, i volumi, gli spazi verdi, i servizi domiciliari, i servizi di quartiere, il loro grado di autosufficienza e di connessione in rete. Per dirla con una battuta: non è solo necessario mobilitare gli ingegneri (dei trasporti, delle strade, delle comunicazioni) ma anche gli architetti e gli urbanisti (sociologi e antropologi) per ridisegnare le nostre città in forma più inclusiva. Anche perché noi abitiamo, viviamo (e resistiamo) nelle città e nei centri abitati.
Terzo: si parla più volte di sviluppo sostenibile nel Piano Colao e questo va bene. Non si parla mai di lavoro sostenibile e questa è una limitazione. Difficile immaginare che la struttura produttiva e dei servizi che c’era prima della crisi diventi sponte sua più sostenibile (ambientalmente, socialmente ed economicamente) se non si impiegano nuove risorse, nuove competenze, nuove sensibilità, nuove culture. In un titolo: occorre un “Piano del lavoro sostenibile” se si vuole creare uno sviluppo sostenibile.
Quarto: non si tiene minimamente conto della “disconnessione” istituzionale italiana. Che c’era prima della pandemia e che il covid19 ha aggravato (“approfittando” anche in questo caso di una patologia pregressa). Questa non è certo responsabilità dei tecnici e nemmeno loro compito risolverla. Ma, con l’attuale “disconnessione”, per cui se Il Governo centrale dice una cosa immediatamente i “Governatori” delle Regioni e i Sindaci delle città Metropolitane dicono il contrario, è difficile immaginare un’applicazione coerente e omogenea dei progetti approvati a Roma. Sarebbe bene evitare anche qui una nuova ondata di lockdown istituzionale: della serie “tu dammi i soldi che a gestirli ci penso io”. Anche perché l’Unione Europea ce lo impedirebbe.
PS. Oggi abbiamo scoperto dalla stampa che gli altisonanti “Stati generali” sono in realtà una serie televisiva a puntate: a ogni puntata che si succede diversi attori e una nuova trama. L’unica cosa che aveva senso nell’iniziativa di Conte era la parola “generali”, siamo scesi agli stati particolari. E, speriamo, complementari. Difficile capire quale sia il disegno, ammesso che…
Gaetano Sateriale