E’ stato chiaro Paolo Pirani, segretario generale della Uiltec, nell’intervista che ha rilasciato a Il diario del lavoro. L’accordo con la Confindustria per un modello contrattuale, ha detto, non serve più. Gli industriali non sono stati capaci di avanzare una proposta, ma ormai se ne può anche fare a meno. I contratti collettivi sono stati tutti rinnovati anche senza un canovaccio di riferimento, e a questo punto rimettersi a discutere di un “modello” sarebbe fatica sprecata.
Ed è vero tutto ciò. Mai come in questi mesi imprenditori e sindacati di categoria sono riusciti a risolvere i loro problemi con generale soddisfazione, creando i presupposti per una sorta di pace sociale come non se ne vedeva da tempo. I sindacati volevano ribadire la centralità del contratto nazionale e portare un po’ di soldi nelle tasche dei lavoratori: i due obiettivi sono stati centrati. Dal canto loro, gli imprenditori volevano avere un po’ di tranquillità per cercare di profittare di questa ripresa, per quanto debole sia, e anche questo obiettivo è stato raggiunto, con un costo molto limitato.
Addio Confindustria, allora, lasciamo da parte i dialoghi difficili? Forse non é proprio così, forse quel modello contrattuale serviva davvero e raggiungerlo sarebbe stata una cosa buona, positiva per tutti, per il sindacato e per i lavoratori, ma anche per le imprese. E non era poi tanto difficile, considerando gli importanti accordi sullo stesso tema che sono riuscite a concludere con i sindacati sia le piccole imprese di Confapi, che la Confcommercio e gli Artigiani. Accordi che rappresentano oggi dei modelli non solo di buon senso, ma di lungimiranza politica: quella che è mancata platealmente alla Confindustria.
Perché un modello contrattuale non serve solo a dire come, in quali tempi, a quali livelli, vanno risolti i diversi problemi propri delle relazioni industriali. Serve soprattutto a stabilire le regole del dialogo e della cooperazione tra le forze sociali. E’ in corso un ampio dibattito nel mondo del lavoro sul futuro delle relazioni industriali, dove si confrontano due linee, sempre le stesse: chi pensa che l’antagonismo sia ancora vivo e necessario e chi guarda più avanti, a come capitale e lavoro debbano non solo convivere, ma cooperare strettamente per raggiungere obiettivi che non sono solo di una parte, ma decisamente comuni.
Questa non è accademia, sono i problemi comuni di chi vive in fabbrica e sa che deve risolvere una serie di problemi e deve farlo anche abbastanza in fretta. Il guaio è che proprio su questo punto non c’è alcuna certezza. Non tanto nel sindacato, dove bene o male le posizioni sono abbastanza definite e si confronteranno apertamente nel dibattito congressuale che si è aperto o si sta aprendo in questi mesi, almeno nella Cisl e nella Cgil, entrambe prossime all’appuntamento congressuale. Sono soprattutto gli imprenditori, anzi gli industriali, che non hanno ancora deciso come muoversi. Non sanno se il sindacato è un partner o un nemico da abbattere, se la partecipazione è un imbroglio o la via di uscita dai guai della produzione, se la contrattazione serve solo al sindacato o se è uno strumento di soluzione dei problemi sociali. In Confindustria un dibattito del genere non si fa da troppi anni, i problemi si sono lasciati incancrenire, senza una discussione, senza un approfondimento.
Di qui le difficoltà a elaborare una proposta e poi discuterla con il sindacati. Di qui il silenzio o il balbettio al quale ci stanno abituando. La verità è che Confindustria è venuta meno al suo dovere, al suo compito principale. Fa lobby, questo sì e anche con successo; ma non può bastare a una grande organizzazione che non voglia rinunciare a svolgere un ruolo di primo piano nella gestione dei problemi del nostro paese. Forse guardare un po’ più approfonditamente ai mali delle fabbriche, alla convivenza nei posti di lavoro aiuterebbe tutti. Ma servirebbe una consapevolezza che non c’è più. Confindustria da troppi anni è profondamente divisa tra falchi e colombe, ormai questi problemi nemmeno li vede più.
Massimo Mascini