La stimolante riflessione di Carlo Callieri (Il Diario del Lavoro del 16 gennaio 2016) sul declino dei corpi intermedi parte da una considerazione incontestabile. Quando i sindacati dei lavoratori e degli imprenditori chiedono al Governo e al Parlamento di regolare per legge il sistema della rappresentanza e della contrattazione stanno abdicando alla loro funzione primaria (al loro core business) e quindi divengono “socialmente” inutili.
Si potrebbe, con qualche ragione, obiettare che un accordo di “democratizzazione” del sistema della rappresentanza è stato già raggiunto tra imprese e sindacati (10 gennaio 2014) e che Cgil Cisl e Uil hanno di recente definito una propria “piattaforma” per il rinnovo delle relazioni industriali e contrattuali. Pertanto la tentazione di abdicare al proprio ruolo di autoregolazione non c’è più (almeno da parte sindacale). Ma sarebbe una risposta che elude un interrogativo di ampia portata sul declino(più o meno storico) dei corpi intermedi.
Dovremmo chiederci infatti, senza voler ricorrere a Bauman (del cui pensiero non ho mai capito bene le conseguenze “operative”), come stiano cambiando i rapporti tra rappresentanza politica e rappresentanza sociale e partire da quelle trasformazioni per comprendere il tramonto di un modello di relazioni e le possibili innovazioni nel ruolo dei corpi intermedi. Per dirla in breve: sono senza dubbio in declino le funzioni classiche di rappresentanza sindacale ma questo dipende anche dalla scomparsa di una certa forma di rappresentanza politica di cui i corpi intermedi sono stati prima filiazione, poi interlocuzione alla pari e in alcune fasi storiche persino supplenza.
Molto di recente a Milano (con Antonio Cantaro) abbiamo affrontato questo tema in un corso di formazione organizzato dalla Ccdl Metropolitana della Cgil, provando a descrivere i caratteri e immaginare le possibili evoluzioni del rapporto tra sindacati e partiti. Il Prof. Cantaro ha descritto con compiutezza la fine della rappresentanza politica classica in Europa e in Italia a favore dei tanti partiti populisti che a destra e a sinistra (al governo e all’opposizione) hanno occupato la scena politica. Complice anche la supremazia del “vincolo” europeo esterno rispetto scelte di politica interna (sociale ed economica) dei singoli stati. Supremazia introdotta dalla crisi e dalla nuova governance dell’Unione.
Per parte mia, ho cercato di ricostruire il rapporto tra le varie forme di partito e di sindacato che abbiamo conosciuto in Italia: dai “Partiti Chiesa” dei primi decenni del dopoguerra, ai “Partiti Pigliatutto” degli anni ’80, ai “Partiti del Leader” ormai generalizzati.
La mia opinione, al riguardo, è che il collante ideologico costitutivo del Partito Chiesa sia venuto meno prima della caduta del muro: che si sia affievolito per conto proprio a partire dalla fine delle lotte sociali degli anni ’70 (che non hanno generato significative innovazioni della politica). Dalla morte di Aldo Moro e Guido Rossa, se si vogliono individuare date simbolo, perdono progressivamente di importanza le singole appartenenze a vantaggio di un “comune” senso di responsabilità nei confronti dello Stato e della democrazia. Ovvero (per toccare un episodio ben noto all’esperienza di Carlo Callieri), dalla sconfitta sindacale alla Fiat dell’autunno ’80, quando nel bene o nel male, i sindacati (e i partiti) sono costretti a fare i conti con il principio, che pure dovrebbe essere per loro costitutivo, per cui la difesa dell’impresa è condizione indispensabile alla difesa del lavoro.
Anche nella fase successiva del Partito Pigliatutto le organizzazioni sindacali “perdono” potere di rappresentanza generale perché costrette a misurarsi con soggetti associativi altrettanto (se non più) influenti presso i vertici politici e amministrativi. Basti pensare al ruolo crescente delle cooperative (e anche delle imprese private) nelle Regioni amministrate dal Pci, Pds, Ds. Questa perdita di influenza sarà più che compensata negli anni di “Mani Pulite”. Quando i sindacati (più quelli del lavoro che quelli dell’impresa, a voler essere precisi) assumeranno un ruolo di condivisione delle emergenze nazionali e di “concertazione” delle scelte necessarie a garantire l’ingresso dell’Italia in Europa.
L’avvento del Partito del Leader cambia radicalmente la forma interna dei partiti e le relazioni tra politica e società. Per semplificare, con Craxi all’inizio (il primo, a mio parere, che sperimenta una nuova forma di partito molto concentrata sul leader) e Berlusconi poi, si produce una divisione del fronte sindacale e quindi un suo indebolimento relativo. Con Renzi si arriva all’esclusione “in principio” di ogni relazione formale o informale tra esecutivo e tutti i sindacati (del lavoro e delle imprese) persino su temi di possibile convergenza di intenti. Ciascuno può scegliere se questo atteggiamento rappresenti solo una coerenza necessaria alla forma populista-leaderista della politica, che non tollera intermediari tra il leader e il popolo, o un sintomo di debolezza del leader (capo indiscusso del governo e del partito) che teme le “verifiche di concretezza” cui sarebbe prima o poi sottoposto da un confronto trasparente con le parti sociali. A mio parere entrambe.
C’è appena da aggiungere che il Partito del Leader, indisponibile al dialogo sociale, risulta “compatibile” con la forma lobbistica della rappresentanza. Ma questa trasformazione non si addice alla organizzazione sindacale dei lavoratori in Italia (“generale” per sua scelta fondativa), mentre sembra più facilmente praticabile (e praticata?) dai sindacati degli imprenditori.
In definitiva, oltre alla frammentazione del lavoro e alla sua riduzione quantitativa dovute alla globalizzazione, all’innovazione e alla crisi, per cogliere le dinamiche profonde e attuali della perdita di rappresentatività sociale bisogna tener conto delle trasformazioni in atto nel sistema politico e nella governance nazionale ed europea.
Come reagire a queste dinamiche di declino è questione molto complessa, che richiede operazioni multitasking di lettura delle trasformazioni in atto e di ridefinizione delle pratiche sindacali di rappresentanza contrattuale (e non politica) dei lavoratori. Evitando le tentazioni di “viaggiare indietro nel tempo”.
Da dove cominciare? Io penso sia necessario ricostruire, senza supponenze, la mappa degli interessi dei lavoratori (“in carne e ossa”, avrebbe detto Bruno Trentin) e della loro cittadinanza, dal basso: dai luoghi di lavoro e dal territorio. Al riguardo, Carlo Callieri suggerisce la necessità di un “salto culturale” che condivido: ripartire dal lavoro e dall’impresa e cogliere gli interessi e i percorsi che li legano in maniera indissolubile. Tracciare da qui (contro ogni ideologia di fine del lavoro, aggiungo io) politiche attive di crescita e innovazione delle competenze (del lavoro e dell’impresa) e percorsi di riforma della rappresentanza, della tutela e della contrattazione.
Mi sembra una bella sfida da raccogliere e rilanciare.
Gaetano Sateriale