“Una cosa deve essere chiara: l’alternanza scuola-lavoro non è apprendistato, non è un tirocinio e neppure uno stage. L’alternanza scuola-lavoro è un’innovazione didattica, è una prassi potenzialmente dotata di un alto valore formativo. In altre parole: è uno strumento con cui studentesse e studenti hanno e avranno l’occasione di imparare – fuori da scuola e anche attraverso lo svolgimento di attività pratiche – cose che possono servire ad arricchire i loro percorsi di crescita e le loro competenze.”
Siamo al piano nobile di quello che, una volta, si chiamava ministero della Pubblica istruzione e che, attualmente, si chiama ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca. Un palazzo progettato appositamente come sede del Ministero e costruito, a Roma, tra gli anni 10 e gli anni 20 del ‘900. In cima all’ampio scalone di marmo, sopra a una porta a vetri, campeggia la scritta: Il Ministro. Ma l’attuale titolare del dicastero, ovvero Valeria Fedeli – con una lunga militanza di sindacalista e di femminista alle spalle, prima di diventare non solo senatrice ma anche Vice-Presidente vicaria del Senato – ci tiene alla declinazione al femminile del suo incarico: Ministra.
Scuola e lavoro, dunque. Due mondi che, nel nostro Paese, sono stati fra loro, e troppo a lungo, troppo lontani. E che forse, allo scadere di questa diciassettesima legislatura, sono, se non più vicini, un po’ meno lontani. Se ciò è accaduto lo si deve, in senso lato, ai due Governi a guida Pd (Renzi e Gentiloni) che si sono succeduti dal 2014 a oggi.
Il primo dei quali, nel 2015, ha varato la famosa legge intitolata “Buona Scuola”; una legge che, tra l’altro, prevede “l’incremento dell’alternanza scuola-lavoro nel secondo ciclo di istruzione”, ovvero nelle scuole superiori. Una legge, quindi, che porta necessariamente alla costruzione di nuovi rapporti fra chi vive e opera in tali scuole, a partire da studenti e insegnati, e la realtà del mondo del lavoro esterno alle scuole. Un anno dopo, ovvero nel 2016, lo stesso governo Renzi ha firmato con i sindacati l’accordo quadro per i rinnovi dei contratti di lavoro dei dipendenti della Pubblica amministrazione. Ha cioè firmato l’accordo quadro che ha consentito, il 9 febbraio scorso, di dare un nuovo contratto nazionale anche alle lavoratrici e ai lavoratori che, ogni giorno, operano concretamente nel mondo della scuola, dagli insegnanti al personale Ata.
Ebbene, la persona che, nel governo Gentiloni, ha avuto il compito di tradurre in fatti concreti sia quella legge che la parte relativa alla scuola di quell’accordo quadro, è proprio la ministra Fedeli. E forse non è un caso se, ad avviare l’avvicinamento che abbiamo appena ricordato, sia stata chiamata un’ex-sindacalista, ovvero una donna che conosce bene sia il mondo del lavoro, che l’importanza del confronto sociale.
Allora – chiediamo alla ministra Valeria Fedeli – missione compiuta?
Missione compiuta mi pare un’espressione esagerata. Quello che però voglio e posso dire, per cominciare a rispondere a questa domanda, è che sono soddisfatta per l’intesa contrattuale che abbiamo raggiunto il 9 febbraio scorso. E ciò, innanzitutto, perché il nuovo contratto nazionale di lavoro arriva dopo otto anni di mancati rinnovi. E’ giusto ricordare, a questo proposito, che abbiamo operato nel solco dell’intesa siglata il 30 novembre 2016 tra i sindacati e il governo Renzi, cioè nel solco dell’accordo-quadro relativo all’intero comparto della Pubblica Amministrazione. Ma sono soddisfatta, in particolare, per due motivi. In primo luogo, perché siamo riusciti a garantire alle lavoratrici e ai lavoratori del mondo dell’istruzione aumenti che sono anche un po’ superiori a quelli previsti. E poi perché nel contratto non ci sono solo aumenti retributivi. Ci sono anche aspetti normativi e c’è, soprattutto, il valore del contratto in quanto tale, ovvero di uno strumento che, di per sé, offre un riconoscimento ai diritti di chi lavora. Infatti, come ho già avuto modo di dire, con questa intesa abbiamo voluto avviare un nuovo percorso di valorizzazione delle professionalità che sono attive nel mondo dell’istruzione, ovvero in un mondo che ha e avrà sempre più un valore strategico, se è vero che viviamo in quella che la stessa legge 107 del 2015, quella della cosiddetta Buona Scuola, definisce come la società della conoscenza. E se è vero, quindi, che la professionalità degli insegnanti e degli altri operatori della scuola è decisiva per la qualità dell’offerta formativa che la stessa scuola può garantire ai giovani del nostro Paese.
Questo dunque per ciò che riguarda insegnanti, ricercatori e personale non docente considerati in quanto lavoratori. Ma veniamo all’altra faccia della medaglia, ovvero all’alternanza scuola-lavoro, cioè all’avvio di un’esperienza che pone le scuole superiori in contatto con i luoghi di lavoro. Anche qui si considera soddisfatta per ciò che è stato fatto sin’ora?
Per rispondere a questa domanda debbo dire, innanzitutto, che il tema dell’alternanza mi ha appassionata moltissimo, ma ha costituito solo uno dei temi su cui, assieme a tutto il Ministero, abbiamo lavorato in questi mesi. Mi permetto di ricordare che sono diventata Ministra nel dicembre del 2016 e che, quando ho assunto la titolarità del Ministero, andavano ancora approvati i decreti legislativi che servivano per tradurre in norme specifiche alcune delle norme generali della legge 107; legge che porta la data del 13 luglio 2015. Ebbene, l’impegno era gravoso, ma ci siamo assunti la responsabilità di portare a compimento la definizione dei decreti che traducevano in nuove norme gli indirizzi di riordino delle disposizioni preesistenti in materia di istruzione; indirizzi, ovviamente, delineati nella stessa legge 107. E così, entro il maggio del 2017 sono stati pubblicati nella Gazzetta Ufficiale otto decreti attuativi. Le ricordo solo alcuni degli argomenti in essi affrontati: reclutamento e formazione dei docenti della scuola secondaria; diritto allo studio; inclusione scolastica degli studenti con disabilità; sistema integrato di educazione e istruzione dalla nascita fino a 6 anni; istruzione e formazione professionale.
“Aggiungo che, fuori dal mondo della scuola, pochi lo sanno, ma il nome completo della legge 107 è ‘Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti’. Un nome che, penso, dà la misura delle ambizioni e delle intenzioni riformatrici del suo disegno originario. Un disegno di cui l’alternanza scuola-lavoro è, io credo, una parte molto significativa.
Lei parla di ‘intenzioni riformatrici’. Ma non mi pare che queste intenzioni siano state colte da tutti. Come Lei sa bene, con la diffusione dell’alternanza scuola-lavoro ci sono state vivaci proteste studentesche. In almeno un caso, una manifestazione è giunta qui a viale Trastevere, sotto alle finestre di questo Ministero. E non è mancato chi ha parlato di sfruttamento del lavoro giovanile, accusando le imprese che hanno accolto gli studenti in alternanza di volersi procurare del lavoro gratuito, non retribuito.
Le aziende e le strutture che scelgono di essere inserite nell’elenco dei soggetti disposti ad accogliere gli studenti in alternanza scuola-lavoro vanno ringraziate, non additate come potenziali sfruttatori del lavoro giovanile. Infatti deve essere chiaro, innanzitutto, che le forme e i modi in cui tali soggetti, attivi nell’economia reale, si dispongono ad accogliere i giovani in alternanza vanno, ovviamente, progettati insieme alle scuole che inviano loro gli studenti stessi. Preciso, a questo proposito, che quando parliamo di soggetti dell’economia reale ci riferiamo a enti che possono essere aziende private di settori diversi, fabbriche, agenzie, ma anche Enti pubblici di varia natura, uffici della Pubblica amministrazione, biblioteche, musei e altro. Ma, ciò detto, il punto principale è che questi soggetti dell’economia reale o della Pubblica amministrazione si assumono una responsabilità sociale. Ed è per questo che vanno ringraziati.
Non perseguono, come pure è stato detto da persone non bene informate, lo scopo di procurarsi, per questa via, una manodopera gratuita. E del resto, chiunque abbia una nozione anche minimale di cosa possa voler dire organizzare la produzione, o comunque l’attività, di un qualsiasi soggetto economico o amministrativo, sa bene quanto lavoro preparatorio e quanta cura siano necessari per poter inserire nella propria programmazione quotidiana dei giovani privi di esperienze specifiche e destinati, peraltro, a restare in azienda o in ufficio per tempi, almeno nell’immediato, limitati. Bisogna quindi capire e riconoscere che queste imprese, questi soggetti si pongono consapevolmente al servizio di un’operazione importante: quella che consiste nel puntare sulla formazione come patrimonio fondamentale del sistema-Paese.
Supponendo che queste siano le vere motivazioni che spingono tali soggetti a farsi avanti, mi chiedo e le chiedo: dove prendono le informazioni che li portano a fare una scelta così impegnativa?
Questa scelta, lo sottolineo, non viene compiuta oggi solo dai singoli attori impegnati direttamente sulla scena lavorativa quali, lo ripeto, imprese private e strutture della Pubblica amministrazione, ma anche da associazioni che hanno funzioni di rappresentanza. E qui penso, ad esempio, a Federmeccanica, ovvero all’associazione delle imprese metalmeccaniche aderenti a Confindustria; un’organizzazione che si è assunta con grande impegno il compito di motivare le imprese del suo settore ad aprirsi all’esperienza dell’alternanza. E lo stesso si può dire di Federchimica, Federfarma o della stessa Confindustria.
Il punto è che l’insieme della società deve essere sempre più consapevole dell’importanza della formazione. Se vogliamo costruire un’economia, o anzi, come credo sia meglio dire, una società della conoscenza, dobbiamo capire che la formazione permanente, intesa in senso lato, è qualcosa di veramente decisivo. Quindi, tornando al nostro tema, direi che l’alternanza scuola-lavoro è anche questo: un’impresa o, comunque, un soggetto dell’economia reale che si assume una responsabilità sociale rispetto al tema della formazione. E dico sociale proprio perché non si tratta tanto della formazione professionale dei propri dipendenti, quanto del tema della formazione dei giovani intesa, appunto, nella sua dimensione sociale.
Tutto questo suona molto bene. Resta il fatto che delle proteste ci sono state e che sono state anche ben visibili.
Devo dire che gli studenti che sono scesi in piazza per protestare contro l’estensione dell’alternanza scuola-lavoro a tutte le scuole superiori costituiscono solo una piccola minoranza, rispetto all’insieme della popolazione studentesca. E tuttavia, c’è una cosa che mi è dispiaciuta. Non il loro numero, per il motivo che ho detto, ma l’argomento o, per dir meglio, uno degli argomenti che hanno usato a sostegno della loro protesta. Ovvero l’idea che sarebbe stato meglio lasciare le cose più o meno come erano prima dell’approvazione della legge 107. Un’idea che può essere riassunta così: ‘Lasciamo fare l’alternanza a chi la vuole fare’. Ebbene, questa idea mi è dispiaciuta proprio perché è la negazione di uno degli aspetti qualificanti della legge 107, ovvero del progetto di estendere questa innovazione didattica dai pochi istituti in cui già si faceva a tutte le scuole.
Può precisare cosa intende col termine ‘estensione’? Molti pensano che con la legge 107 l’alternanza scuola-lavoro sia stata introdotta ex novo nella nostra realtà scolastica.
No. L’idea dell’alternanza scuola-lavora fu inizialmente introdotta nel nostro ordinamento scolastico nel 2003, con la legge n. 53. La materia fu poi disciplinata nel 2005 con il decreto legislativo n. 77. L’alternanza era finalizzata all’acquisizione, allo sviluppo e all’applicazione di competenze specifiche, previste dai profili educativi, culturali e professionali dei vari percorsi di studio. In particolare, prima della riforma introdotta dal Governo Renzi, l’alternanza la si faceva essenzialmente in certe parti del nostro Paese, ovvero al Centro e, ancor più, al Nord. E ciò, io credo, anche per la maggiore vicinanza di certe zone dell’Italia a Paesi come la Francia e la Germania, ove già da tempo esistono esperienze di questo tipo. Soprattutto, la si faceva con più attenzione negli istituti tecnici statali.
Invece, con la legge 107 l’alternanza è diventata universale. E’ diventata un’esperienza di apprendimento curricolare che riguarda gli studenti degli ultimi 3 anni di tutte le scuole superiori: 400 ore negli istituti tecnici e professionali e 200 ore nei licei. E questo è il punto: l’alternanza è un’esperienza che deve poter essere a disposizione di tutti. Lo scopo è quello di riunificare tendenzialmente conoscenze e saperi codificati nel mondo della scuola, con culture e conoscenze proprie del mondo del lavoro. Anzi, starei per dire del mondo dei lavori. Lo scopo, ancora, è quello di acquisire conoscenze e competenze, imparando, innanzitutto, cosa vuol dire il lavoro come esperienza collettiva, cosa vuol dire lavorare dentro una realtà organizzata in vista di una finalità, in ampio senso, produttiva. Avendo chiaro, peraltro, che non si tratta di copiare e importare prassi acquisite dai paesi che, come Francia e Germania, hanno già compiuto un percorso molto più lungo del nostro in questa stessa direzione, ma di avviare una fase che ha anche un valore di sperimentazione.
Se le cose stanno come dice Lei, torno a chiedermi e a chiederle: perché questa innovazione – come, del resto, anche altre misure della legge 107 – non è stata accolta positivamente dal mondo della scuola?
Per prima cosa voglio dire che non è vero che l’estensione dell’alternanza non sia stata accolta positivamente. Come abbiamo appena detto, ci sono state delle proteste studentesche, ma da parte del corpo docente sta venendo avanti un crescente interesse. In un tempo ancora piuttosto breve, abbiamo già messo insieme prime esperienze concrete anche molto interessanti.
Ciò detto, secondo me il punto è che, varata la legge 107 nel luglio 2015, la sua attuazione andava curata con un’attenzione più ravvicinata di quanto non sia stato fatto in una prima fase. Le cose non sono automatiche. Capita che non basti scrivere una nuova norma di indirizzo, per quanto buona e ragionata essa sia. Occorre anche immaginare quali difficoltà potrebbero frapporsi alla sua piena attuazione e cosa si debba fare per superare tali eventuali difficoltà.
Nello specifico, si trattava di operare in diverse direzioni. Primo, formazione dei docenti che poi si sarebbero dovuti impegnare per organizzare, dal lato scolastico, le attività di alternanza scuola-lavoro. Secondo, creazione della figura dei tutors, che avrebbero dovuto seguire da vicino le attività svolte in alternanza. Terzo, costruzione di rapporti strutturati con i soggetti dell’economia reale che avrebbero dovuto ospitare gli studenti in alternanza.
In questi anni, il nostro Ministero ha quindi lavorato intensamente per recuperare queste carenze progettuali. Ed è appunto dall’esame attento delle difficoltà attuative, che sono emerse mese dopo mese, che sono nati gli strumenti che abbiamo presentato a Roma, il 16 dicembre 2017, negli Stati Generali dell’alternanza.
(Prima parte – continua)
@Fernando_Liuzzi