Paolo Pascucci
L’ipotesi di configurare il referendum come condizione di legittimità della proclamazione dello sciopero nei servizi pubblici essenziali e, in particolare, nei trasporti, merita particolare attenzione sotto il profilo strettamente giuridico.
Non si deve infatti trascurare che, nei servizi pubblici essenziali, l’esercizio del diritto di sciopero è disciplinato da una legge (12 giugno 1990, n. 146, modificata dalla legge 11 aprile 2000, n. 83), la quale si prefigge l’obiettivo di contemperare tale diritto con il godimento dei diritti costituzionalmente tutelati della persona di cui sono titolari gli utenti dei servizi medesimi. Come è noto, nell’ambito considerato, la legge 146/1990 assoggetta la legittimità della proclamazione dello sciopero al rispetto del termine di preavviso (non inferiore a 10 giorni), alla preventiva indicazione della durata dell’astensione, nonché alla salvaguardia delle prestazioni indispensabili individuate mediante accordi sottoposti alla valutazione di idoneità della Commissione di garanzia dell’attuazione della stessa legge o, in mancanza di tali accordi, mediante la provvisoria regolamentazione deliberata dalla Commissione medesima. La riforma del 2000 ha inoltre prescritto che la proclamazione dello sciopero debba essere necessariamente preceduta dall’esperimento di procedure di raffreddamento e di conciliazione previste nei predetti accordi o, comunque, di un tentativo di conciliazione in sede amministrativa.
Pur sottoponendo l’esercizio del diritto di sciopero degli addetti a servizi pubblici essenziali a penetranti limitazioni, la legge 146/1990 non ha tuttavia intaccato il tradizionale “dogma” della titolarità individuale del diritto medesimo che, ad onta di qualche critica, appare ancora oggi dominante nell’interpretazione dei giuristi: anche nell’ambito considerato, il diritto costituzionale di sciopero (art. 40 Cost.), pur esercitandosi collettivamente, continua a costituire patrimonio di ogni singolo lavoratore, come tale indisponibile da parte di chiunque, compreso il sindacato. Ciò emerge chiaramente dalle disposizioni della legge che, riferendosi alla proclamazione dello sciopero o all’adesione allo stesso, parlano indistintamente di “soggetti”, lasciando intendere che chiunque – anche una coalizione spontanea od occasionale di lavoratori – può proclamare uno sciopero, ovviamente nel rispetto delle condizioni stabilite.
All’istituto del referendum la legge 146/1990 (art. 14) fa riferimento soltanto a proposito della consultazione che la Commissione di garanzia indice tra i lavoratori interessati, ricorrendo determinate condizioni (peraltro di incerta interpretazione), qualora si manifesti un dissenso tra le organizzazioni sindacali dei lavoratori su clausole specifiche concernenti l’individuazione o le modalità di effettuazione delle prestazioni indispensabili. Questa consultazione non riguarda pertanto la decisione dello sciopero, ma esclusivamente le modalità del suo esercizio. Va peraltro rilevato come, finora, questo istituto non sia mai stato praticamente utilizzato, presumibilmente a causa delle vastissime zone d’ombra presenti nella norma che lo disciplina.
Al di là del silenzio della legge sull’ipotesi di una consultazione referendaria in vista della decisione e, quindi, della proclamazione di uno sciopero, non sono mancate opinioni e proposte volte ad introdurre un simile strumento, ancorché in via assolutamente sperimentale, al fine di prevenire gli effetti dannosi causati dai frequenti conflitti di riconoscimento o di legittimazione ricorrenti proprio nel settore dei trasporti. Occorre peraltro ricordare che già il Patto sulle politiche di concertazione e sulle nuove regole delle relazioni sindacali per la trasformazione e l’integrazione europea del sistema dei trasporti, siglato il 23 dicembre 1998, aveva tra l’altro previsto (punto 5.3) che, in relazione al ricorso allo sciopero, la possibilità di stabilire ulteriori forme di coinvolgimento delle parti ed eventualmente di consultazione dei lavoratori fosse verificata dalle parti in un gruppo di lavoro tecnico che avrebbe riferito in merito al ministro dei Trasporti.
Di particolare interesse risulta l’opinione formulata circa un anno fa da Tiziano Treu, secondo cui l’introduzione in via sperimentale del referendum sarebbe coerente con la finalità della legge 146/1990 di contemperare gli interessi degli scioperanti con i diritti costituzionali dei cittadini utenti: infatti, tale contemperamento rischia di essere vanificato qualora si manifesti un’evidente sproporzione fra la gravità dei danni provocati agli utenti e l’ambito in cui si assumono le decisioni individuali di sciopero (sproporzione dovuta al potere vulnerante dei piccoli gruppi). In altri termini, proporzionare l’ampiezza del consenso alla gravità degli effetti causati dallo sciopero risponderebbe ad un principio fondamentale di correttezza sociale e di democraticità, intervenendo “a monte” sulle procedure decisionali mediante la richiesta di una valutazione delle ragioni di chi intende scioperare nel confronto con gli altri titolari del diritto che sono portatori di interessi simili.
Si tratta di un’opinione non priva di buone argomentazioni, ma che, come avvertiva il suo stesso autore, esige di procedere con estrema cautela soprattutto in relazione al concreto accertamento dei confini dell’ambito entro cui può parlarsi di un comune interesse collettivo dei lavoratori: ambito che dovrebbe coincidere con quello della categoria contrattuale di riferimento. In realtà, il problema è proprio quello che si pone nel settore dei trasporti, caratterizzato, oltre che dalla presenza di svariate decine di contratti collettivi, da una forte frammentazione della rappresentanza sindacale connessa alla emersione di diversi gruppi professionali. Non a caso, lungi dal prefigurare un generale obbligo legale di ricorso al referendum, Treu segnalava l’opportunità di affidare alla Commissione di garanzia il compito di decidere, su richiesta delle parti o d’ufficio, sull’opportunità di utilizzare il referendum, tenendo ovviamente conto delle circostanze e dei vari interessi in gioco. In questa prospettiva, quindi, il referendum rivestirebbe un carattere eccezionale, riguardando quei casi in cui la Commissione di garanzia non ravvisi un effettivo seguito nell’azione di protesta ipotizzata e questa possa compromettere gravemente il servizio (in questi termini si esprimeva anche Marco Biagi all’indomani della sigla del Patto dei trasporti del 23 dicembre 1998).
Può agevolmente osservarsi come questa proposta – che si inscriveva in un solco di ipotesi di ulteriore modifica della legge n. 146/1990 formulate all’indomani dell’emanazione della riforma del 2000 – lungi dall’assecondare tendenze thatcheriane volte ad prefigurare il referendum come assoluta condizione di legittimità dello sciopero, mirasse a considerare la consultazione come uno strumento di carattere residuale, essenzialmente imperniato sul ruolo di un soggetto terzo competente a valutare l’opportunità di utilizzarlo. Senonché, come già anticipato, nella legge 146/1990 non è dato rintracciare un simile potere in capo alla Commissione di garanzia, nonostante il significativo ampliamento delle sue attribuzioni operato dalla legge 83/2000. Ne deriva perciò che, allo stato, ogni discorso sull’ammissibilità di un referendum decisorio sullo sciopero con carattere vincolante non può non essere condotto alla stregua dell’ordinamento attualmente vigente e dell’interpretazione più accreditata che ne è stata finora consegnata.
In tal senso, si dovrà osservare che, fino a che permarrà il dogma della titolarità individuale del diritto di sciopero, difficilmente potrà sostenersi che una consultazione referendaria (in astratto pur sempre ammissibile) possa vincolare tutti i lavoratori interessati, limitando il diritto di alcuni di essi di proclamare uno sciopero alle condizioni imposte dalla legge. In realtà, finché non si porrà mano ad una seria disciplina della rappresentanza sindacale, ogni tentativo di arginare il diritto al conflitto dei gruppi spontanei o dei dissidenti non potrà che limitarsi ad operare sul versante delle modalità di esercizio dello sciopero. Non può certo dubitarsi che le azioni conflittuali di questi soggetti siano quelle più vulneranti nei confronti degli utenti dei servizi pubblici, né, d’altro canto, che questa paradossale situazione rischi di rallentare il processo di europeizzazione del nostro Paese. Nondimeno, l’attuale quadro normativo, a partire dagli assetti costituzionali (artt. 39 e 40 Cost.), pare ancora legittimare un simile paradosso, tanto che, fin dai primi commenti, la legge n. 146/1990 è stata vista come uno strumento parziale di controllo del conflitto in assenza di una legge sulla rappresentanza sindacale e sulla contrattazione collettiva.
Nel frattempo, qualche passo sulla strada della prevenzione del conflitto è stato compiuto, sia a livello negoziale (v. il Patto dei trasporti del 1998), sia a livello legislativo (l’obbligo di esperire le procedure di raffreddamento e conciliazione introdotto dalla legge 83/2000): ma, appunto, si tratta di primi passi che, di per sé, non possono stravolgere lo scenario di riferimento della materia, come ha ritenuto la stessa Commissione di garanzia in occasione di una importante delibera su dette procedure.
Né può pensarsi che, in assenza di un intervento legislativo ad hoc, la stessa Commissione possa arrogarsi il compito di utilizzare – al di fuori del quadro delineato dall’art. 14 della legge 146/1990 – uno strumento, come quello referendario, con cui si finirebbe per limitare surrettiziamente non già l’esercizio del diritto di sciopero, bensì la sua stessa titolarità. Per quanto l’opera della Commissione sia stata fin qui caratterizzata anche da atteggiamenti interpretativi ispirati ad una certa elasticità (si pensi al valore attribuito, prima della riforma del 2000, alla sua proposta formulata in carenza di accordo: un’interpretazione peraltro condivisa da gran parte della dottrina e della giurisprudenza), pare davvero impensabile che essa possa spingersi fino ad incidere così pesantemente sugli stessi fondamenti dell’ordinamento sindacale. Senza dire, poi, che anche un’eventuale legge in materia dovrebbe pur sempre confrontarsi con gli artt. 39, comma 1°, e 40 Cost., risultando così affidato alla Corte costituzionale il delicatissimo compito di verificare la permanente attualità del dogma della titolarità individuale del diritto di sciopero.