Come per ogni manovra finanziaria che si rispetti girano anche quest’anno vorticose le proposte sulle pensioni. Sono momenti di mal di pancia assicurato per chi segue la materia. Inutile aver sperato una riforma condivisa con le Parti sociali, completa, logica e possibile. Spiegata al Paese anche nei sacrifici una volta per tutte e poi applicata almeno per i successivi 50 anni.
Ammettendo magari aggiustamenti ma non interventi su criteri e regole anno dopo anno che manifestano approssimazione e creano sfiducia. Ma chi farebbe mai volontariamente un investimento qualsiasi sapendo che può capitare di non sapere quanti soldi ti ridaranno e soprattutto quando? Immaginatene uno lungo per oltre 40 anni in cui ogni anno vi spiegano urgenti correzioni peggiorative al contratto iniziale. Penso davvero sia una follia l’incertezza normativa che si perpetua, creando palesemente ingiustizie sociali e in particolare tra generazioni ma anche tra le classi di lavoratori con medesima età.
Curiosando un po’ tra le novità che circolano, oltre a rivedere quote, spostare finestre, limitare le opzioni, tagliare perequazioni e riesaminare gli indici per i calcoli, si pensa di rendere obbligatorio destinare alla previdenza complementare una parte del TFR per i lavoratori privati, spiegando che in questo modo si aumenterebbe la pensione futura. Di fatto portando a poco meno del 40% della retribuzione in accantonamento verso la pensione (se sommiamo i contributi previdenziali versati dal dipendente, dal datore di lavoro e le tasse che impieghiamo per integrare pensioni non coperte dai contributi). Aumentando così il contributo obbligatorio per la vecchiaia e superstiti già più alto a livello mondiale (dati OECD).
In questo modo i futuri pensionati, con almeno 40 anni di lavoro, potrebbero tornare a godere, nei successivi circa 15/20 anni di vita, quel circa 80% dell’ultimo stipendio. Quindi con più anni lavorati, con più contributi versati e potendo avere la pensione quasi 10 anni dopo rispetto a molti degli attuali pensionati, si cerca di stabilire la soglia di adeguatezza della prestazione previdenziale.
Non si conta purtroppo il fatto che il primo problema rimane lo stipendio, troppo basso in Italia, per cui anche l’80% di poco rimane sempre poca cosa. Ci accorgeremo che non avremo pensioni sufficienti per la sussistenza e si richiederanno ulteriori correzioni e aggiornamenti. Panico? Essendo un problema lontano non si vedono oggi sommosse di popolo e non se ne vedranno a breve.
Certo questo disinteresse rimane un vero problema. Per questo riteniamo sia urgente informarsi, farsi una cultura previdenziale per trovare soluzioni individuali, difendendosi con una pianificazione finanziaria accurata che magari può condurre ad un consapevole incremento di contribuzione, TFR e oltre (come fa chi scrive), alla previdenza complementare. Ma anche per formarsi come elettori. Perché per trovare soluzioni serve una opinione pubblica in grado di indirizzare la politica a scelte responsabili di lungo periodo.
Basti pensare che mentre leggiamo di interventi previdenziali estemporanei, toppe mai decisive sempre da rivedere, nessuno si concentra sulle vere minacce che attentano al nostro meritato futuro pensionistico: il numero dei lavoratori (studiare per favore demografia) e la produttività troppo bassa, che incide negativamente sul reddito dei lavoratori e sul calcolo delle future pensioni. Solo se si cominciasse ad affrontare con decisione questi grossi presupposti potremmo rimetterci a lavorare proficuamente sulle regole previdenziali, ora rimane solo il mal di pancia.
Massimo Fiaschi, segretario generale di Manageritalia