Come primo atto ufficiale del suo mandato, il neoministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico, Luigi Di Maio, ha voluto incontrare i rider, il più recente emblema della precarietà contrattuale e salariale. In parallelo, a Bologna, lo scorso 31 maggio, è stata firmata la prima Carta dei diritti dei fattorini, sottoscritta dalle istituzioni e dai sindacati locali. Luigi Sbarra, numero due della Cisl, ritiene però che queste possano arrivare solo da una azione a livello nazionale. Il Diario del Lavoro lo ha intervistato, per fare il punto sul fenomeno dei rider e sulle proposte che la Cisl intende mettere in campo.
Sbarra, la Carta dei diritti di Bologna è il primo passo verso una maggiore attenzione al fenomeno dei rider. Come valuta l’iniziativa e in che modo potrebbe essere ampliata?
L’iniziativa del comune di Bologna ha avuto il merito di dimostrare quanto ci sia bisogno di regole nuove e tutele per questi lavoratori e di contribuire con un primo testo, molto dettagliato e condivisibile. Ma con essa si dimostra evidente l’esigenza di una regolamentazione nazionale, meglio se di natura contrattuale. Guai a pensare a regole diverse a seconda di ogni campanile, e in questo senso le principali aziende non hanno voluto firmare quella carta. Occorre quindi portare questa discussione sul piano nazionale e passare da una carta dei diritti chiari ma teorici a un accordo che fornisca protezioni concrete ed esigibili ai lavoratori.
Non c’è il rischio che il proliferare di azioni di questo tipo in altre città e realtà creino l’effetto macchia di leopardo, innescando altri squilibri e diseguaglianze?
Le aree metropolitane, nei quali più è concentrata la presenza e l’attività dei rider, sono quelle a maggiore sensibilità da questo punto di vista. Ma non serve la proliferazione di carte, né tantomeno la produzione di leggi regionali, che alcuni assessori o governatori hanno preannunciato. La politica offra sedi di incontro e semmai azioni di supporto. Servirebbe, ad esempio, un “albo” pubblico che permetta di conoscere e registrare tutte le piattaforme digitali che forniscono lavoro. Ma, lo ripeto, per evitare squilibri e disparità è urgente un tavolo nazionale di confronto che coinvolga le aziende interessate e che veda il ministero del Lavoro protagonista.
In effetti, come primo atto, il neoministro del Lavoro e dello Sviluppo ha convocato proprio i rider…
Se la volontà del ministro Di Maio è stata quella di avviare la ricerca di soluzioni specifiche per dare risposte concrete a questo mondo del lavoro, siamo molto contenti. Ma forse le soluzioni che questi lavoratori attendono derivano più da contratti sindacali che non da leggi. Occorre quindi una riconvocazione del ministero, che veda al tavolo sia le aziende che i sindacati. In questo mondo del lavoro nessuno è di per sé rappresentativo. Né il sindacalismo confederale, che deve parlare a questi lavoratori, né i piccoli comitati che nascono ripetutamente. Solo tutti insieme si potranno creare soluzioni efficaci ed apprezzate da chi lavora.
Cosa chiedete esattamente al nuovo Esecutivo a questo proposito?
Il nuovo Governo deve costituire un tavolo di confronto dal quale nascano disponibilità concrete e un percorso negoziale per realizzare accordi sindacali nazionali. Lo ripeto: più che carte teoriche di diritti serve un Accordo sindacale quadro che anche all’epoca delle app può essere costruito in modo adatto al tipo di attività e utile per i lavoratori. Se poi il governo vorrà mettere qualcosa di suo, penso che i temi della indennità di disoccupazione, di una maggiore protezione in caso di maternità, malattia e infortunio, del miglioramento delle prestazioni previdenziali della gestione Separata Inps, siano di sua competenza.
Tuttavia, anche l’impianto attuale delle relazioni industriali fatica a tenere il passo con queste nuove forme di occupazione della gig economy. Da cosa dipende questo affanno?
Le piattaforme digitali sono un fenomeno esploso recentemente. Gli stessi gestori ci dicono che ogni due mesi devono rivedere il modello di business e di struttura organizzativa in modo flessibile. Parliamo di attività nelle quali nessun lavoratore vede in faccia un datore di lavoro o un caporeparto, come accade in ogni altro impiego. Soprattutto, ogni addetto opera da solo, cosa che non capita in nessun altro ambiente lavorativo piccolo o grande che sia. Da qui nascono le oggettive e naturali difficoltà a rappresentare queste persone e a costruire relazioni industriali efficaci. Le stesse aziende non sono ancora aggregate in alcuna associazione di rappresentanza. Per risolvere e superare questo affanno, le parti sociali dovranno sforzarsi di definire regole agili, sostenibili, adatte sia al modello di azienda che alle esigenze del lavoratore, senza limitarsi a fotocopiare la struttura dei contratti nazionali del passato.
Che tipo di relazioni industriali occorre per far fronte all’emergere della gig economy?
Servono relazioni agili, adatte e coinvolgenti. Per la Cisl in questo momento la priorità non è definire nel diritto del lavoro nuove o diverse tipologie contrattuali, ma dare tutele concrete e regole negoziate per una retribuzione sufficiente, con normative che proteggano il lavoratore. Vorremmo non creare da soli queste ipotesi di regole: serve un confronto stretto con le aziende. Che non sono aziende come le altre, perché sono completamente digitali e mutevoli. Occorre pertanto che le relazioni industriali si pongano temi finora mai affrontati nella normale contrattazione. In questo mondo dovremo occuparci delle regole di ingaggio con le quali la disponibilità del lavoratore, tramite la app, incrocia i bisogni di servizio, visto che non esistono turni o orari classici, ma anche del diritto alla privacy, della costruzione di sistemi reputazionali, di modalità nuove di recesso dalla prestazione che siano tutelanti. Dobbiamo fare i conti con sfide nuove per le relazioni industriali.
Ma con quali strumenti la contrattazione potrebbe offrire una rete di protezione per un segmento del mondo del lavoro così poco presidiato?
Anzitutto fornendo tutele generali minime. Oltre ai salari, pensiamo alla malattia, alle ferie, ai riposi, alla definizione di un orario massimo giornaliero e settimanale, alla gestione delle assicurazioni previdenziali e infortunistiche che vadano oltre quelle minimali. Insomma, parliamo dell’abc delle tutele contrattuali. Ma possiamo farlo in modo nuovo per questo particolare modo di lavorare. Come Cisl, vorremmo puntare a un sistema di “tutele crescenti” che aumenti le protezioni a seconda della intensità della prestazione scelta dal lavoratore (se voglio lavorare tutta la settimana il diritto al riposo è importante, se lavoro solo nei week end lo è meno). Inoltre, dobbiamo creare un sistema mutualistico con il quale finanziare e costruire protezioni e tutele che il lavoratore può chiedere di ottenere. Per essere concreti, penso che se per ogni consegna 10 centesimi del costo fossero destinati ad un fondo gestito in maniera bilaterale, si potrebbero erogare molte prestazioni di welfare, formazione e integrazioni a chi lavora.
Che rapporti hanno queste piattaforme con i sindacati, se ne hanno?
Al momento, per quanto osserviamo, informali e non ancora strutturati. Come dicevo, le piattaforme non hanno una loro associazione di rappresentanza e inoltre stanno registrando evoluzioni e cambiamenti continui. Abbiamo contatti, e coltiviamo il dialogo, proprio con l’intenzione di comprendere e individuare soluzioni adatte. Purtroppo, le più grandi sono di origine multinazionale e a quel livello vengono stabilite regole e normative. Spero che tuttavia cresca nei loro dirigenti la consapevolezza che contrattazione e relazioni sindacali non sono strumenti del passato, ma servono a garantire una concorrenza leale basata su un lavoro tutelato. È venuto il momento di aprire confronti e tavoli di negoziazione per generare soluzioni utili.
Ma secondo lei i rider sono lavoratori autonomi o dipendenti?
Il diritto del lavoro fa fatica ad adeguarsi alla velocità con cui la tecnologia cambia i modi della prestazione lavorativa. A mio avviso si tratta di lavoratori che dipendono evidentemente da una organizzazione aziendale: non basta dire che lavoro per una app per essere definito come autonomo. Ma non vi è dubbio che il lavoratore gode di alcuni margini di autonomia, a partire dalla possibilità di rifiutare la consegna proposta o di scegliersi l’orario di lavoro. L’attuale norma del Jobs Act che lega la presunzione di lavoro subordinato al coordinamento spazio-temporale potrebbe aver bisogno di una riscrittura alla luce del lavoro utilizzato sulla base della tecnologia delle piattaforme. Tant’è vero che per il Tribunale di Torino, che ha considerato lavoratori autonomi i rider di Foodora, si è mostrata insufficiente. Non credo, invece, che oggi serva la creazione di nuove tipologie contrattuali: ne abbiamo fin troppe nel nostro diritto. Mi chiedo invece se verso queste forme di lavoro più spezzettate, in futuro, non si possano far evolvere tipologie come il contratto a chiamata, pensate finora per rapporti di lavoro con orari fissi. Se anche i lavoratori restassero sotto forma di collaboratori coordinati, dovrebbero presto godere delle principali tutele di cui gode chi è subordinato.
Salario minimo e reddito di cittadinanza sono stati spesso invocate come soluzioni per offrire maggiori tutele, e il nuovo governo le ha inserite nel suo programma. Lei cosa ne pensa? Possono essere utili?
Esiste il problema di garantire un salario sufficiente, e quindi un salario minimo. La nostra idea è quella di negoziare un sistema che mantenga il pagamento a consegne ma permetta, a fronte di una continuità di prestazione, di avere comunque garantito un salario contrattuale non inferiore a quello stabilito dai contratti nazionali di settore stipulati dai sindacati rappresentativi. Vorremo quindi costruire un contratto ad hoc, piuttosto che un salario minimo per legge che chiunque farebbe fatica a fissare e che, andasse bene anche per i ciclo fattorini, magari non sarebbe equo per altre tipologie di lavoro. E prima di parlare di reddito di cittadinanza, vorremmo rendere più flessibili e disponibili sia il Reddito di inserimento che le indennità di disoccupazione oggi previste dai sistemi di sicurezza sociale: tenendo presente che i lavoratori della gig-economy non possono accedervi e che queste ultime restano fuori dalle possibilità dei lavoratori di cui parliamo.
L’ introduzione di un salario minimo potrebbe rappresentare anche una sorta di cavallo di Troia per i settori oggi già coperti dalla contrattazione?
Sul salario minimo il sindacato deve essere pronto al confronto con il nuovo governo, che ne ha fatto un cavallo di battaglia sia in campagna elettorale che nel contratto di governo. Noi non scapperemo dai tavoli, ci siederemo portando domande e proposte. Al governo, che propone un salario minimo per chi non è coperto dalla contrattazione, chiederemo di indicarci quali sono esattamente questi lavoratori: oggi il sistema di relazioni industriali prevede Ccnl per tutti i settori e per tutti i lavoratori dipendenti. Semmai il problema è il dumping contrattuale, che genera sottosalario e che va combattuto, come ci siamo proposti di fare insieme a Cgil e Uil nell’accordo con Confindustria. Se poi si vuole creare un salario minimo per freelance e lavori autonomi, ne possiamo discutere. Ma non sarà facile remunerare “a ore” questi lavori. Quello che assolutamente vogliamo evitare è l’introduzione di un salario minimo che permetta alle aziende di disdettare il rispettivo Ccnl per applicare un salario più basso.
In che modo si potrebbero spingere le aziende a offrire maggiori tutele, contrattuali e salariali, senza ricorrere a strumenti che gravino sulla fiscalità generale?
La chiave sta nella bilateralità e nella mutualizzazione di prestazioni che servono molto al lavoratore e che possono essere finanziate in modo collettivo. Le aziende devono capire che il lavoro ha bisogno di tutele, ma è vero anche che stiamo parlando di un mercato del lavoro non stabile, frammentato, nel quale i rapporti sono scostanti e discontinui. Oggi più di ieri serve avere un fondo mutualistico che fornisca prestazioni utili ai lavoratori.
Più in generale, qual è il suo giudizio sull’andamento e la qualità dell’occupazione, alla luce degli ultimi dati diffusi?
Da due anni l’occupazione in Italia cresce pressoché ininterrottamente, e abbiamo recuperato i livelli pre-crisi. Tuttavia, dalla seconda metà del 2016, sono stati i contratti a termine a trainare la crescita, mentre i contratti a tempo indeterminato da fine 2016 hanno iniziato addirittura a ridursi, nonostante la ripresa economica e nonostante gli incentivi. Questi dati trovano una parziale spiegazione nella fisiologia dei comportamenti economici: le aziende non si fidano ad assumere a tempo indeterminato finché non si trovano di fronte ad una ripresa economica ben consolidata. Esistono tuttavia anche comportamenti meno fisiologici e talvolta spregiudicati: è spesso proprio il caso di alcune aziende che lavorano con piattaforme digitali, dai lavoratori interinali di Amazon ai riders dei giganti delle consegne di cibo a domicilio. A problemi complessi vanno date risposte riflettute ed articolate: oltre a politiche per consolidare la crescita economica, vanno rafforzate le politiche attive e va mantenuto e potenziato il principio per cui il lavoro stabile deve costi meno di quello a termine. Auspichiamo che su tutta la delicata partita del lavoro si apra un confronto tra governo e parti sociali.
Tommaso Nutarelli
@tomnutarelli