Gaetano Sateriale è un sindacalista che, nella sua vita, con l’industria ha sempre avuto a che fare. Nato a Ferrara, già all’inizio degli anni 70 cominciò a frequentare i cancelli del Petrolchimico, il grande stabilimento Montedison posto fra la periferia e la campagna, le cui torri dominavano il panorama di quell’ultimo lembo di Emilia. In quegli anni, a ridosso del ’68 e dell’autunno caldo, gli studenti inneggiavano al potere operaio e andavano davanti alle fabbriche a spiegare ai lavoratori che i sindacati erano troppo moderati. Ma poi finì che Sateriale, come tanti altri suoi coetanei in altre città, fu culturalmente catturato proprio da quelle organizzazioni che, inizialmente, criticava. E così cominciò senza accorgersene una carriera da sindacalista, prima all’Ufficio studi della Camera del lavoro della sua città natale, poi in Filcea (il sindacato chimici della Cgil), negli anni della grande ristrutturazione dell’industria chimica italiana, poi a Roma, quale coordinatore dell’Ufficio contrattazione della Cgil nazionale e, infine, nella segreteria nazionale della Fiom, il sindacato dei metalmeccanici, per cui ha seguito grandi gruppi quali Finmeccanica ed Electrolux.
Il Diario del lavoro lo ha incontrato nel suo ufficio al secondo piano della sede Cgil di corso d’Italia, dove Sateriale è tornato dopo essere stato per due mandati sindaco di Ferrara. Sul suo tavolo, fa bella mostra di sé la copertina della sua ultima creatura: “Il Piano del lavoro Cgil su Twitter e Facebook”. Un volumetto di 48 pagine – uscito come supplemento di Rassegna sindacale, il settimanale della confederazione – che raccoglie i 100 tweet in cui, nei mesi scorsi, è stato condensato il senso del Piano che fu presentato dalla Cgil nel gennaio 2013, nonché altrettanti brani, un pò più lunghi delle 140 battute consentite da Twitter, via, via pubblicati su un altro social media, Facebook appunto, a esplicazione e commento dei “cinguettii” sopracitati. Tra i collaboratori di Susanna Camusso, infatti, Sateriale è quello che ha avuto l’incarico di seguire l’elaborazione del Piano e poi di operare per diffonderne le idee portanti.
Allora Sateriale, domenica 22 giugno il Messaggero ha pubblicato un vero e proprio manifesto di Romano Prodi intitolato “Otto proposte per la rinascita dell’industria”. Si tratta di otto punti a partire dai quali l’ex Presidente del Consiglio ed ex Presidente dell’Unione europea lancia una serie di proposte di politica industriale volte a favorire una ripresa dell’industria manifatturiera nel nostro paese. Cominciamo da qui. Perché, secondo Lei, dagli Stati Uniti, al Regno Unito, all’Italia si assiste oggi a questo ritorno di interesse verso il concetto stesso di politica industriale?
Perché le ricette economiche neoliberiste, che hanno dominato il panorama per un trentennio, hanno ormai mostrato tutti i loro drammatici limiti. A partire dal 2008, la crisi economica ha avuto una dimensione globale e l’idea che il mercato sia capace di fare da solo si è dimostrata sbagliata, praticamente, in tutto il mondo. In effetti, la bolla finanziaria, il cui scoppio sta all’origine della crisi, si è formata, per l’appunto, in un mercato sregolato. Le disastrose ricadute sull’economia reale della crisi finanziaria hanno dimostrato che l’esistenza di alcune regole è necessaria. Non solo, hanno dimostrato che è necessaria anche una guida politica dell’economia.
Ciò che serve innanzitutto, quindi, è una politica economica, in senso lato. E se la crisi che attanaglia Italia, Europa e Stati Uniti è una crisi da domanda, torna d’attualità il pensiero keynesiano. Nel senso che occorre usare le risorse disponibili per sostenere la domanda interna. Ma, come notava acutamente Mariana Mazzucato, la giovane economista intervistata proprio dal Diario del lavoro nei giorni scorsi, per fare politica economica, dentro questa crisi ancora non superata, non basta Keynes: serve anche Schumpeter.
In che senso?
Nel senso che ritengo sia necessario approfittare della crisi e dell’intervento pubblico volto a debellarla per indurre una domanda non solo più abbondante, ma anche innovativa. O meglio, una domanda nuova che spinga verso la ricerca di nuove risposte e, quindi, verso innovazioni di processo e di prodotto. In particolare, per quanto riguarda l’Italia, credo si debba spingere l’industria a competere nelle fasce alte del mercato, altrimenti si condanna il nostro paese alla svalorizzazione del lavoro e lo si espone a ulteriori rischi di delocalizzazione.
Veniamo quindi all’intervento di Prodi. L’ha letto? E se sì, cosa ne pensa?
Certo, ho letto il suo intervento e mi è tornato in mente quando, da studente all’Università di Bologna, feci con lui l’esame di Economia industriale. L’analisi di Prodi è lucida e ben articolata. Leggendo i suoi otto punti si ha la sensazione di essere di fronte a qualcuno che, quando parla di industria, sa di cosa parla e lo fa non solo con competenza, ma anche con buon senso e pragmatismo.
Devo dire, però, che – su un punto non secondario – c’è una distanza effettiva fra la sua impostazione e quella del Piano del lavoro della Cgil. Mi riferisco al punto in cui Prodi torna a proporre un’idea di politica industriale, per così dire, verticale, ovvero delle politiche di settore. Si tratta di un approccio che, secondo me, va superato. Per il resto, invece, il suo manifesto, come Lei lo chiama, mi pare ampiamente condivisibile.
Allora mettiamo a fuoco intanto, i punti condivisi. Mi pare si possa dire che, al di là dell’osservazione che Lei ha appena fatto sulle politiche di settore, nel manifesto di Prodi prevalgano, almeno quantitativamente, le proposte di tipo orizzontale, ovvero quelle relative a fattori e a fenomeni che hanno influenza e peso su tutti i settori. E’ così?
Sì, è così. L’attenzione di Prodi si concentra, in larga misura, su problematiche di tipo orizzontale, per ognuna delle quali avanza proposte mirate e praticabili. Il suo intervento spazia quindi dalla scarsa disponibilità di credito, alla bassa capitalizzazione delle nostre aziende; dalla necessità di favorire la loro crescita dimensionale e la continuità dell’attività imprenditoriale nei passaggi da una generazione all’altra, all’opportunità di operare affinché le imprese familiari comprendano l’utilità e l’importanza di dotarsi di manager esterni alla famiglia.
Più in generale, molte delle nostre imprese, caratterizzate da dimensioni relativamente minori, sono per così dire prigioniere del mercato interno, che è appunto quello tuttora affetto dalla crisi più grave a causa di una carenza di domanda ormai pluriennale. Ebbene, come suggerisce Prodi, per potersi cimentare in termini competitivi sui mercati globali le imprese devono crescere sia nella loro dimensione, sia nelle competenze di cui dispongono.
Osservo poi che, per quanto riguarda la ricerca e sviluppo, è molto interessante l’esempio tedesco citato da Prodi, quello della Fraunhofer Gesellschaft. Una società pubblica, con sedi diffuse sul territorio, che può ricevere finanziamenti privati ed è attrezzata per svolgere quelle ricerche applicate che sarebbero troppo impegnative e troppo costose per le aziende di minori dimensioni. Una società che, secondo Prodi, ha avuto e continua ad avere una funzione molto importante nel determinare la forte competitività del sistema industriale germanico.
Infine, Prodi ha ragione a ricordarci che, in Italia, abbiamo troppo pochi ingegneri. Dobbiamo produrne di più.
E veniamo allora al punto di dissenso cui prima ha accennato: le politiche di settore. Se non sbaglio, Obama, tanto per fare un esempio, le politiche di settore le fa, eccome. O, quanto meno, come ben sappiamo, ne ha fatta una per ciò che riguarda l’auto. Cosa c’è che non va?
Obama difende le industrie che ha e fa bene a comportarsi così perché, quando uno ha perso un settore, poi l’ha perso e basta. Osservo però, in primo luogo, che nulla impedisce al Presidente degli Stati Uniti di fare degli aiuti di Stato, mentre i paesi membri dell’Unione europea, come è noto, non possono farli. Naturalmente, questo lo sa anche Prodi che, non per caso, inserisce la sua proposta di scegliere e difendere “i settori e le traiettorie tecnologiche per noi più interessanti” nell’ambito di una “nuova politica industriale europea” che, però, è ancora qualcosa di abbastanza indeterminato.
In secondo luogo, osservo che proprio gli studi di Mariana Mazzucato mostrano che negli Stati Uniti c’è una ricca esperienza nell’uso di strumenti di politica industriale di tipo orizzontale. Mazzucato si è concentrata sull’esempio della Apple, un’impresa che prima, quando era piccola, ha ricevuto finanziamenti pubblici destinati alle piccole imprese sulla base di criteri dimensionali e non settoriali, e poi ha saputo profittare ripetutamente dei risultati di ricerche di base effettuate grazie ad un altro tipo di finanziamenti pubblici, come quelle che hanno portato alla creazione del Gps.
Questo per quanto riguarda le differenze fra Europa e Stati Uniti. Ma, ciò detto, torno a chiederle: cosa c’è che non va nelle politiche di settore?
Il rischio più immediato è che il tutto si riduca a una somma di linee guida e incentivi. Il che sarebbe comunque meglio di ciò cui sembra puntare il nostro attuale Governo, ovvero a generici incentivi fiscali non legati a obiettivi specifici.
Ma il punto vero è un altro. Il Piano del lavoro della Cgil si è proposto di realizzare un’innovazione culturale, un cambio di paradigma.
In primo luogo, la nostra idea è che la crescita, la competitività, e quindi l’occupazione, si possono rilanciare a partire da un’analisi dei bisogni connessi ai tanti aspetti di arretratezza presenti nel nostro Paese. Secondo il nostro Piano occorre partire da problematiche peraltro note: assetto idrogeologico, rischio sismico, sicurezza degli edifici scolastici, salute, trasporti, logistica, banda larga, risparmio energetico, ciclo dei rifiuti. Problematiche di cui si parla da anni. La nostra proposta è che i bisogni specifici connessi a queste problematiche irrisolte vadano declinati in altrettanti progetti intersettoriali.
Come ho detto prima, e come anche Prodi sa bene, la crisi industriale esplosa nel 2008 è connessa essenzialmente, nel nostro paese, a gravi carenze della domanda interna. Secondo il Piano del lavoro occorre quindi costruire dei progetti che inneschino una nuova domanda, creando un nuovo mercato.
Può farci capire meglio con qualche esempio?
Certo. Prendiamo l’edilizia. Si stabilisce che i nuovi edifici debbono rispondere a determinati criteri di risparmio energetico. Con uno slogan potremmo dire: non solo nuove case, ma case nuove. Ciò determinerà la ricerca e la produzione di nuovi materiali, e la messa a punto di nuove tecniche costruttive, attivando una nuova domanda interna. Il che, lo sottolineo, non resterà confinato nell’ambito dell’industria delle costruzioni, ma coinvolgerà necessariamente settori come acciaio, alluminio, vetro, legno, eccetera. Insomma, coinvolgerà anche l’industria metalmeccanica, l’industria chimica e l’industria del legno.
Oppure consideriamo il welfeare rivolto alla persona. Si tratta di cambiare parametri rispetto al ruolo degli ospedali nel territorio, sviluppando da un lato i loro livelli di specializzazione e, dall’altro, l’assistenza sanitaria a domicilio. Nuovi investimenti in macchinari sanitari possono accompagnarsi a una migliore assistenza e a consistenti risparmi finanziari generati da un abbattimento dei ricoveri ospedalieri. In altre parole, i poteri pubblici devono creare una domanda di innovazione.
In secondo luogo, come dicevo prima, la politica settoriale, ormai, si può fare solo in chiave europea. L’altra idea portante del nostro Piano è che occorra agire in una dimensione territoriale. La nuova domanda deve crearsi a partire da dove c’è concretamente un dato bisogno di innovazione.
Quello che Lei ha detto sul valore intersettoriale di problematiche quali edilizia, scuola, sanità, e risparmio energetico ricorda il Piano del Lavoro lanciato da Giuseppe Di Vittorio tra il 1949 e il 1950.
È vero, ed è un’ascendenza di cui andiamo orgogliosi. E che credo non dispiacerebbe nemmeno a Prodi.
@Fernando_Liuzzi