La vicenda trae origine dal licenziamento per giusta causa di una lavoratrice, dipendente della Luxury Goods Italia S.p.A., società operante nel settore del lusso. La lavoratrice, il 27 maggio 2017, durante il proprio turno di lavoro presso il negozio Gucci di Venezia, avrebbe registrato un video all’interno del punto vendita raffigurante una cliente corpulenta in area vendita, con l’apparente intento di metterne in evidenza le fattezze fisiche in modo denigratorio. Tale video sarebbe poi stato condiviso dalla lavoratrice all’interno di una chat WhatsApp privata denominata “Do u like… Ve3?”, creata dai dipendenti del negozio e contenente circa quindici membri. La diffusione del video è emersa successivamente, quando una collega della lavoratrice, anch’essa partecipante alla chat, ha inoltrato il filmato alla direzione aziendale nel febbraio 2018. La società ha quindi contestato disciplinarmente la condotta della dipendente con una lettera del 16 febbraio 2018, ravvisando una grave violazione dei doveri di riservatezza e rispetto verso la clientela, nonché un potenziale danno all’immagine del marchio Gucci. Il 5 marzo 2019, Luxury Goods Italia S.p.A. ha proceduto al licenziamento per giusta causa della lavoratrice, ritenendo che la condotta avesse arrecato un pregiudizio non solo alla cliente ripresa, ma anche all’azienda stessa, violando i principi deontologici previsti dal contratto collettivo applicabile. Il Tribunale di primo grado aveva dichiarato illegittimo il licenziamento, sentenza poi riformata dalla Corte d’Appello di Venezia, la quale ha invece confermato la legittimità del provvedimento espulsivo, evidenziando come la trasmissione del video fosse avvenuta in un contesto non riservato, consentendo di ritenere che i membri della chat avessero facoltà di condividerne il contenuto anche all’esterno. La Corte d’Appello ha dunque ritenuto che il comportamento della lavoratrice avesse superato il limite dell’illecito disciplinare, giustificando il licenziamento in tronco. Tuttavia, la Cassazione ha ribaltato tale decisione, ritenendo che la chat in questione avesse natura privata e che i messaggi al suo interno fossero tutelati dall’articolo 15 della Costituzione, il quale sancisce l’inviolabilità della segretezza della corrispondenza. Di conseguenza, l’acquisizione del video da parte del datore di lavoro è stata considerata una violazione della privacy della lavoratrice, rendendo illegittimo il licenziamento.
La Suprema Corte ha riformato tale decisione, accogliendo il ricorso della lavoratrice e cassando la sentenza di merito. La pronuncia si fonda sul principio costituzionale della libertà e segretezza della corrispondenza, sancito dall’art. 15 della Costituzione, il quale tutela la riservatezza di qualsiasi comunicazione tra soggetti determinati, indipendentemente dal mezzo utilizzato.
In particolare, la Cassazione ha sottolineato che:
- Le chat private rientrano nella sfera di protezione dell’art. 15 Cost., analogamente alla corrispondenza cartacea o alla posta elettronica.
- Il contenuto delle comunicazioni scambiate in chat chiuse non può essere liberamente utilizzato dal datore di lavoro per provvedimenti disciplinari, salvo il consenso dell’interessato o specifiche deroghe normative.
- L’iniziativa di un partecipante alla chat che rivela il contenuto delle comunicazioni private a terzi costituisce una violazione del diritto alla segretezza della corrispondenza, e non può giustificare il licenziamento della lavoratrice. (Cassazione sezione lavoro 5334 pubblicata il 28/02/2025).
Per la Cassazione il datore di lavoro non può sorvegliare le comunicazioni private dei dipendenti, né utilizzarle a fini disciplinari senza rispettare le garanzie previste dalla normativa sulla privacy e dallo Statuto dei lavoratori.
La tutela della riservatezza impone l’obbligo di evitare le indebite interferenze nella sfera privata dei dipendenti. Il lavoratore ha il diritto a comunicare liberamente senza il rischio di ripercussioni disciplinari.
Biagio Cartillone