Salvare l’industria: è questa la motivazione ufficiale dello sciopero con cui, oggi, i metalmeccanici cercano di dare un segnale di allarme al paese. E non c’è dubbio che la nostra industria abbia molto bisogno di essere salvata. Lo dimostrano i numeri, innanzi tutto: la seconda manifattura europea, settima o sesta potenza industriale globale, non sta bene per niente, anzi. I dati Istat di questa mattina stimano per aprile un calo del fatturato dell’industria dell’1%, così come gli ordinativi, che perdono il -2,4%. I dati precedenti, sulla produzione, non erano migliori: meno 0,7% rispetto a marzo e meno 1,5% su base annua. C’era di mezzo il super ponte di primavera, che senza dubbio ha contribuito al calo, così come pesa la congiuntura internazionale. Ma resta che praticamente tutti i settori industriali principali arretrano, dal tessile ai macchinari, fino all’auto, che decisamente crolla.
Ne risente di conseguenza l’occupazione: ad aprile l’utilizzo della cassa integrazione è aumentato del 78% rispetto all’anno prima e del 79% sul mese di marzo, e rischiamo di battere il record con un milione di ore nel corso dell’intero 2019.
Fin qui l’economia delle statistiche, ma poi ci sono i casi concreti. Che si indentificano, per esempio, nella pila di dossier aperti al Ministero dello Sviluppo, sempre più alta: i tavoli di crisi erano 138 a gennaio e sono oggi 160, coinvolgendo un numero di lavoratori che supera le 200 mila unità. Alcuni casi ormai ‘’famosi’’, causa ampia copertura mediatica – Whirlpool, Mercatone Uno, Ilva- altri invece li conoscono solo gli sfortunati lavoratori e i territori di appartenenza. Nel 35% di questi tavoli ci saranno lavoratori licenziati, dice il sindacato, e saranno circa 90 mila, in aggiunta ai 300 mila che hanno già perso il posto di lavoro nel corso della crisi economica. Molti di questi lavoratori hanno aperto con i loro striscioni i tre lunghi cortei Fiom, Fim e Uilm di Milano, Firenze e Napoli. Cortei affollatissimi, decine di migliaia di persone, malgrado le temperature proibitive della sciabolata bollente che sta colpendo l’Italia in questi giorni.
Come si diceva, pesa certamente la congiuntura internazionale, ma anche la scarsa capacità dell’esecutivo di gestire l’economia e le stesse crisi, che fa peraltro pendant con la notevole abilità di gestirle dal punto di vista mediatico. La crisi di Mercatone Uno, per esempio, è stata addossata interamente al precedente governo, anche se la cessione al gruppo farlocco, che l’ha portata per la seconda volta al fallimento e all’amministrazione controllata, è stata conclusa nell’agosto scorso dal governo giallo-verde ormai insediato. O quella solo apparentemente “a sorpresa’’ della Whirlpool di Napoli, affrontata in maniera guascona dal ministro dello Sviluppo, e che invece pare fosse notissima, come lo stesso Di Maio, alla fine, ha dovuto ieri ammettere: ‘’lo sapevamo da sempre che lo stabilimento di Napoli aveva problemi’’. E ancora, c’è la Pernigotti, altra situazione gestita con annunci roboanti, salvo scoprire che il tavolo di crisi di fine maggio non si è mai riunito ed è rinviato a data da destinarsi, che la procedura per la cassa integrazione non è ancora stata attivata, e che pare non si abbiano più notizie dei due possibili salvatori già teoricamente individuati. E c’è la sgradevole ‘’buca’’ data ai lavoratori della ex Alcoa, oggi rilevata dalla SiderAlloys, venuti a Roma da Portovesme a spese proprie per incontrare il ministro, che però non si è mai presentato.
Ci si potrebbe chiedere: ma se non c’è la capacità di gestire il day by day delle crisi, come si può immaginare che il governo sia in grado di creare una politica industriale con un orizzonte lungo, come chiedono oggi i sindacati dei metalmeccanici?
E qui si viene all’altro corno del problema, cioè il rapporto tra i sindacati, la loro base, e il governo stesso. Un triangolo difficilissimo da tenere assieme: circa il 40% degli iscritti ai sindacati alle politiche aveva votato Lega o Cinque stelle, ma tra le elezioni del 4 marzo e le europee, secondo un sondaggio Swg, coloro che nelle fabbriche hanno votato Lega sono aumentati del 29%, raggiungendo il 48%, mentre sono crollati del 20% quelli che avevano votato i 5S. La Lega si consolida, insomma, come partito operaista, fenomeno peraltro non nuovo, già visto nel 1994. Tuttavia, per il sindacato è una convivenza difficile, più difficile ancora che con i 5stelle, coi quali, se non altro, c’erano, e ci sono, parecchi punti di contatto. Questo complica anche la gestione di uno sciopero, che non può ovviamente essere apertamente contro il governo, e tanto meno contro Di Maio: ancora risuonano i cori di entusiastico sostegno dei lavoratori Whirlpool verso il ministro ‘’uno di noi’’.
Ma il sindacato ha comunque il dovere di spiegare ai lavoratori, a prescindere dalle loro legittime scelte elettorali, quali ricadute hanno le scelte dei governi nei luoghi di lavoro e sulla loro stessa vita. Lo sciopero di oggi, spiegano infatti Fiom, Fim, e Uilm nei comunicati ufficiali, nasce “per chiedere al governo e alle imprese di mettere al centro il lavoro, i salari, i diritti”, ed è determinato “dalla sempre maggiore incertezza sul futuro, vista la contrazione della produzione industriale, la perdita di valore del lavoro, l’aumento degli infortuni e dei morti sul lavoro, la mancanza di una qualsiasi idea di politica industriale nel Paese “. Giusto, ma tutto questo ha dei responsabili, con dei nomi e dei cognomi. Il sindacato lo sa, i lavoratori, forse, ancora no. Ci si potrebbe augurare che lo scoprano presto: ma starebbe a significare che l’Italia è davvero scivolata nell’abisso del decadimento economico, e questo, ovviamente, nessuno sano di mente può augurarselo.
Nunzia Penelope