Il 2018, come è ormai universalmente noto, è un anno pieno di anniversari. Si va dal cinquantennio del ’68, al quarantesimo anniversario del varo della legge 194; dal bicentenario della nascita di Karl Marx, al centesimo anniversario della nascita di Nelson Mandela; dall’ottantesimo anniversario della promulgazioni delle leggi razziali in Italia, al centenario della fine della Prima Guerra mondiale.
Fra tante ricorrenze, ce n’è anche una strettamente legata al mondo del lavoro: dieci anni fa, il 9 aprile del 2008, entrò in vigore il decreto legislativo n. 81, noto come “Testo unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro”. Un provvedimento legislativo di indiscutibile rilievo, ma semisconosciuto a largi settori dell’opinione pubblica.
Come è anche noto, infatti, l’informazione, almeno in Italia, ha un atteggiamento bivalente rispetto alla tematica della rischiosità delle attività produttive e della eventuale nocività degli ambienti di lavoro. Da un lato sensibile, nell’immediato, alle tragedie proposte dalla cronaca, come i numerosi incidenti mortali registrati in questi giorni, o ai problemi che possono colpire l’immaginario collettivo, come la nocività ambientale di un grande stabilimento tipo Ilva di Taranto. Ma, dall’altro, poco propensa a indagare le cause di questi fenomeni o a riflettere sulle tendenze lungo cui tali fenomeni si sviluppano in un periodo non breve. Per non dire, poi, che è quasi svogliata quando si presenta l’occasione di entrare nel merito delle diverse sfaccettature di eventuali iniziative di prevenzione.
Non è dunque un caso che a sollecitare il ricordo di quella data, e a perorare l’esigenza di fare un bilancio dei contenuti e degli effetti del Testo unico, a dieci anni dalla sua nascita, siano stati alcuni dei protagonisti dell’iniziativa politica che portò alla sua approvazione: Cesare Damiano, che all’epoca era Ministro del Lavoro, e Antonio Montagnino, che di tale dicastero era un attivo sottosegretario.
Cos’è dunque il Testo unico? E come è nato? “Era il tempo del secondo Governo Prodi”, quello del 2006-2008, ha ricordato Montagnino, in apertura di un convegno promosso dall’associazione “Lavoro&Welfare” e svoltosi a Roma, mercoledì 16 maggio, presso la Sala del Parlamentino dell’Inail. “In materia di salute e sicurezza sul lavoro – ha detto ancora Montagnino – volevamo dare al paese una riforma efficace e moderna. Si trattava di riordinare norme obsolete e non omogenee, anzi spesso contraddittorie e quindi di difficile applicazione: alcune da cancellare, altre da semplificare e innovare. Siamo partiti da qui, nel tentativo di aiutare la formazione di una coscienza collettiva di rispetto della vita delle persone e della dignità del lavoro.”
Si trattava dunque di “riformare e definire in un unico testo la normativa sulla salute e sicurezza sul lavoro”. I capisaldi di questa azione di riordino normativo erano già contenuti in un provvedimento programmatico approvato sotto lo stesso Governo Prodi: la legge delega del 3 agosto 2007, n. 123. Legge che si fondava “su due pilastri”. Da un lato la prevenzione, con “la diffusione della cultura della sicurezza, le misure premiali soprattutto per le piccole e medie imprese, la formazione dei lavoratori e dei datori di lavoro, la qualificazione delle imprese, l’integrazione dei sistemi informativi, il potenziamento degli organismi paritetici”. Dall’altro i controlli, con “il coordinamento della vigilanza, l’incremento del personale ispettivo, la sospensione delle attività per gravi e reiterate violazioni della normativa sulla sicurezza, l’interdizione ai benefici di finanza pubblica per le imprese non virtuose”.
Le difficoltà incontrate in un lavoro di riordino di una materia complessa, e variamente normata nel corso di alcuni decenni, non furono poche. Ma furono affrontate, ha ricordato Montagnino, “attraverso il metodo del confronto istituzionale, con le Regioni e le parti sociali”. E ciò perché nel centro-sinistra di allora prevaleva l’idea che “solo in questo modo sarebbe stato possibile attuare riforme condivise, e quindi efficaci”.
Tuttavia, il 24 gennaio 2008 il secondo Governo Prodi venne battuto in Senato. Per condurre in porto il decreto attuativo della legge delega cominciò allora una corsa contro il tempo. Favorita – come ha ricordato nel corso del dibattito Franco Bettoni, presidente dell’Anmil – dall’emozione provocata in tutta l’opinione pubblica dalla tragedia che, nella notte fra il 5 e il 6 dicembre 2007, si era verificata alla ThyssenKrupp di Torino, dove un incendio aveva provocato l’atroce morte di 7 operai.
A ciò si aggiunse, ricorda Montagnino, il “costante sostegno del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano” e, cosa rara, “la convergenza di tutte le forze politiche”. Così, il 9 aprile, a Camere praticamente già sciolte, il decreto n. 81 vide la luce. Le elezioni politiche che daranno il via alla XVI legislatura si terranno di lì a pochi giorni, il 13 e 14 aprile.
Che bilancio si può trarre, dopo dieci anni di vita, sull’efficacia del decreto 81? A rispondere a questa domanda si è applicato Francesco Rampi che, per l’Associazione Lavoro&Welfare, ha condotto una ricerca intitolata Sicurezza sul lavoro: il “punto” a dieci anni dall’avvio di un percorso.
Ebbene, secondo i dati citati da Rampi e tratti dalla Banca dati statistica dell’Inail, il totale degli infortuni sul lavoro denunciati è passato dalla cifra di circa 1.500.000, registrata nel1978, aquella di circa 620.000, registrata nel 2016. Nello stesso arco di tempo, gli infortuni mortali sono scesi da circa3.800 apoco più di 1.000.
Ora nessuno pensa che questo calo, pur così rilevante, sia dovuto unicamente agli effetti benefici del decreto 81. Infatti, qui vanno fatte due osservazioni. In primo luogo, la tendenza a un calo, anche se non uniforme, sia degli infortuni denunciati che di quelli mortali inizia già con gli anni80. Insecondo luogo, in base a una considerazione espressa da più d’uno fra gli intervenuti al convegno, appare legittimo ritenere che il calo degli infortuni registrato nell’ultimo decennio vada correlato, in misura significativa, al brusco calo dell’attività produttiva che è derivato dalla crisi economica globale scoppiata proprio verso la metà del 2008. Crisi che da noi, come è noto, ha provocato la cancellazione di un quarto della capacità produttiva installata nell’industria e, quindi, anche un calo significativo del numero delle ore lavorate.
Resta il fatto che, secondo i dati riportati da Rampi, le denuncie d’infortunio, in totale, sono state 877.823 nel 2009, mentre nel 2017, dopo otto anni di diminuzioni più o meno rilevanti, si sono attestate sulla cifra di 635.433. Quanto agli infortuni con esito mortale sono passati dai 1.547 del 2009 ai 1.029 del 2017. Il che vuol dire più di 3 morti al giorno. Insomma, sempre troppi. Ma, comunque, meno di prima, ovvero due terzi di quelli che venivano registrati prima della crisi.
D’altra parte, tutti i rappresentanti delle parti sociali intervenuti al convegno – e cioè Pierangelo Albini (Confindustria), Riccardo Giovani (Confartigianato), Franco Martini (Cgil), Angelo Colombini (Cisl) e Silvana Roseto (Uil) – hanno espresso un parere positivo sia sul metodo concertativo che portò 10 anni fa alla stesura del Testo unico, sia sull’influenza virtuosa che la sua esistenza ha prodotto sul mondo della produzione. E ciò anche perché, in tutta evidenza, un apparato produttivo meno nocivo all’interno e all’estero dei capannoni industriali e un ambiente di lavoro meno rischioso sono qualcosa di apprezzabile non solo sotto il profilo etico, rispetto ai diritti di quegli esseri umani che svolgono la funzione di lavoratori, ma anche dal punto di vista economico. E ciò sia per ciò che riguarda gli interessi delle singole imprese, sia per ciò che riguarda i costi sociali connessi all’attività produttiva.
Come è stato quindi ricordato nel dibattito svoltosi nella sala del Parlamentino Inail, la battaglia per un ambiente di lavoro meno nocivo e meno rischioso può portare a soluzioni win win, ovvero ad assetti in cui sia i lavoratori che le imprese arrivino a trovarsi in condizioni migliori di quelle di partenza. E quindi non per caso, come ha sottolineato ancora Rampi in apertura del suo intervento, un capitolo dell’accordo su modello contrattuale e rappresentanza – firmato da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria il 9 marzo scorso – è dedicato ai temi della salute dei lavoratori e della sicurezza nei luoghi di lavoro.
E tuttavia, come ha notato lo stesso Montagnino, il nuovo “aumento delle morti sul lavoro e delle malattie professionali, iniziato già nel 2017, desta allarme”. Bisogna dunque comprendere le ragioni di questa nuova ondata di tragedie sul lavoro.
La prima macro-correlazione che è emersa dal convegno è che la pur lenta uscita dalla crisi, dando origine a una nuova crescita dell’attività produttiva, e quindi delle ore lavorate, porta con sé anche una crescita del numero di occasioni in cui possono generarsi incidenti sul lavoro. Ma vi sono probabilmente anche cause più specifiche. Sempre secondo Montagnino, si va dalla “caduta di attenzione rispetto ai temi” della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, a una “riduzione dei controlli”, e a un “allentamento nel rispetto della normativa” prevista dal Testo unico.
Da quest’ultimo punto di vista, è particolarmente frustrante notare, come ha fatto Franco Martini, che “le causali degli infortuni sono sempre le stesse”. Infatti, le dinamiche che, specie nell’industria manifatturiera, generano gli infortuni sono state studiate nel corso del tempo e sono quindi ampiamente note. Ma, in assenza di una capillare attività preventiva, tendono a ripetere i propri tragici effetti.
Il fatto è che – come ha sottolineato Giuseppe Lucibello, Direttore generale dell’Inail – le norme, da sole, non producono sicurezza. E non per caso, quindi, il Testo unico era volto a promuovere un’intensificazione dei controlli. Oltre che al quadro normativo, ha aggiunto sulla stessa linea Bruno Busacca, del Ministero del Lavoro, bisogna guardare al quadro applicativo.
Insomma, dal convegno è emersa l’opinione condivisa che servirebbero più prevenzione e più controlli. In pratica, va incrementata l’attività ispettiva, volta a diffondere il rispetto delle norme esistenti. Inoltre, come ha sottolineato ancora Martini, nell’attività di prevenzione vanno coinvolti altri soggetti, come il Ministero delle Infrastrutture, perché il diffondersi delle lavorazioni in appalto o in subappalto, che investe anche l’industria manifatturiera, è ancor più forte nel settore delle opere di infrastrutturazione. E troppe volte, ha detto il sindacalista, gli appalti si trasformano in fabbriche di infortuni.
Tutto ciò, comunque, non significa che la produzione normativa, in sé, abbia esaurito dieci anni fa i suoi compiti. Rispetto all’attività legislativa, dal convegno romano è invece emerso che c’è ancora molto da fare. Pareri convergenti hanno sostenuto che appare ormai evidente la necessità di definire nuove norme che siano capaci di interagire con i cambiamenti che, nell’ultimo decennio, sono intervenuti e continuano a verificarsi nel mondo del lavoro. Un mondo che, da un lato, viaggia spedito verso orizzonti di crescente innovazione tecnologica, con tutto ciò che va ormai sotto il nome di Industria 4.0. Mentre, dall’altro, vede germinare al proprio interno i cosiddetti “lavoretti”. Attività minori, più o meno discontinue, fra cui possono essere annoverate quelle nuove forme di facchinaggio per cui ai garzoni dei negozi di alimentari, che un tempo effettuavano le consegne a domicilio, si sono venuti sostituendo i cosiddetti riders muniti di biciclette o ciclomotori. E questo, è stato notato da più voci, è proprio un esempio classico delle nuove nocività. Perché sgusciare via nel traffico serale di una grande città, avendo sulle spalle una specie di gerla rigida e carica di cibo, se da un lato può costituire, quanto meno, un’occasione di affaticamento dell’apparato muscolo-scheletrico, dall’altro può determinare situazioni anche molto rischiose o foriere di tragiche conseguenze, come – nei giorni scorsi – ha mostrato il caso del rider investito da un tram a Milano.
I dieci anni trascorsi dal varo del decreto n. 81 – ha affermato concludendo il convegno Cesare Damiano, che di Lavoro&Welfare è il presidente – ci dicono che il suo impianto ha retto. Adesso si tratta di aggiornarlo “mettendolo a contatto con l’evoluzione del mercato del lavoro”. Serve dunque un’iniziativa legislativa che non si occupi solo di rischi e nocività, ma anche di ridefinire la collocazione giuridica dei lavoratori della gig economy. Stabilendo quali attività possano essere considerate come lavoro autonomo, e quali, invece, come lavoro dipendente. Ma anche estendendo l’idea e la pratica della prevenzione allo stesso lavoro autonomo.
Un’ultima considerazione. Viviamo tempi perigliosi, in cui ogni giorno si leva un coro di voci apparentemente diverse, ma convergenti nell’affermazione che, in politica, non vi sono più differenze fra destra e sinistra. Sbaglierò, ma a me sembra che un Esecutivo che, come il secondo Governo Prodi, concerta con sindacati e associazioni imprenditoriali un progetto di riordino della legislazione esistente volto a ridurre, in termini tangibili, la rischiosità delle attività lavorative e la nocività di ambienti e apparati produttivi, faccia o abbia fatto una cosa giusta. E forse non è un caso che si sia trattato di un Governo di centrosinistra.
@Fernando_Liuzzi