Vado subito al dunque, lasciando perdere quanto invece possa distogliere dal merito. Non mi sembra infatti interessante, a questo fine, soffermarsi se il Cnel abbia tracimato dal dettame costituzionale o se abbia agito come cavalier servente del Governo.
Il dunque è che l’assunto che è a fondamento di tutto il Rapporto è quello della Direttiva europea. Credo sia stata una scelta giusta e si sia fatto bene. Tranne che della Direttiva però poi ci si è limitati a farne una traduzione letterale e didattica, senza mai provare a capirne né le ragioni, né lo spirito, né tantomeno il senso dell’operazione che la Commissione ha messo in campo.
Per questo un lavoro puramente burocratico, come se invece di Villa Lubin ci si ritrovasse invece a Palazzo Vidoni. Durante tutto il Rapporto, nemmeno per sbaglio, viene alla mente della Commissione di chiedersi, ad esempio, come mai nel 2022 l’Unione europea abbia deciso di varare una Direttiva in materia, quando già 23 Stati su 27 hanno già un salario minimo, dal quale nessuno di loro, ha la minima intenzione di revocare. Dico 23 e non come di solito si cita 22, perché anche l’Austria ha un salario minimo, per accordo interconfederale, firmato nel 2007 che ne fissò la dimensione a mille euro che poi, regolarmente viene aggiornato nel corso degli anni.
Gli unici Stati che ne sono ancora sprovvisti sono quattro, i tre scandinavi, Svezia, Finlandia e Danimarca e l’Italia. Dunque si tratterebbe allora di una Direttiva ad personam, concepita contro questi quattro Stati renitenti per obbligarli alla sua applicazione? Quanto provincialismo, amici del Cnel!
E’ evidente che no, anche perché la Direttiva giustamente fissa la quota dell’80% di copertura contrattuale, come un riferimento opzionale circa l’adozione di un salario minimo legale.
E a Bruxelles anche l’ultimo portinaio di palazzo Berlaymont sa che la soglia di quella copertura, nei quattro Stati citati, è ben superiore a quella percentuale e dunque si sarebbe potuto ben evitare tanta fatica per niente.
Perché ciò su cui il Rapporto non ha (maliziosamente?) voluto andare più a fondo sta proprio nella ragione stessa per cui la Direttiva è stata fatta e cioè che bisognerebbe fare tutto quello che è necessario al fine di garantire ai lavoratori in Europa, un salario adeguato.
E la composizione di un salario adeguato non si è mai visto che venga fatto per sottrazione e non, invece, per addizione. Nel senso che tutti gli strumenti andrebbero messi in campo al fine di raggiungere l’obiettivo di fornire ai lavoratori una reale protezione salariale.
E la Commissione è giunta a questa determinazione in ragione del crescente indebolimento di quella protezione in seguito a una competizione nel commercio globale sempre più aggressiva, grazie ai differenziali di protezioni contrattuali e sociali esistenti lungo tutto l’arco del pianeta, e della conseguente destrutturazione dei mercati del lavoro in Occidente e della sempre più diffusa pratica di dumping sociale e salariale.
A questo guarda la Direttiva, quel che in giurisprudenza si definisce “lo spirito della legge”, una competizion a cui poi, drammaticamente, si sono aggiunti la pandemia, la/le guerre, l’inflazione e la caduta verticale del potere d’acquisto di tutti i redditi fissi e cioè dei lavoratori e dei pensionati.
I due mesi assegnati al Cnel per formulare il suo Rapporto, peraltro sono caduti proprio in un lasso di tempo come mai è stato così visibile il peggioramento delle condizioni materiali di vita dei lavoratori, come dimostra la dimensione abnorme di un’economia sommersa giunta all’iperbolica cifra di 192 miliardi, di oltre quattro milioni di lavoratori in nero e più di altrettanti con paghe “da fame”, dovute all’atomizzazione molecolare del mercato del lavoro.
Ma il Cnel di questo non si occupa, quanto invece si appassiona a cavillare, dizionario alla mano, non il senso politico della Direttiva ma la sua traduzione letterale, magari sillabando parola per parola, visto che si sa, nel nostro Paese, non si è proprio portati alla conoscenza delle lingue straniere.
Salario adeguato, cari amici, va ben oltre l’antica disputa che ha percorso l’Europa sul salario minimo, quando al suo centro vi era la tesi che il salario minimo andava applicato in quegli Stati dove i sindacati e quindi la contrattazione erano deboli, mentre era strumento del tutto superfluo in quelli dove invece erano più forti e rappresentativi.
Questa disputa è finita nel 2012 quando il Governo tedesco di Grosskoalition, adottò la decisione di varare un salario minimo, all’epoca di 9 euro l’ora divenuti oggi 12, dopo una lunga e annosa rivendicazione del sindacato tedesco, la Dgb, ivi comprese un’infinità di manifestazioni di massa imponenti.
Davvero si può credere che il sindacato tedesco ha lottato per anni, in quanto debole?
E’ cioè debole, sulla base dei criteri adottati dal Cnel nel Rapporto, ovvero quello della soglia di copertura, un sindacato di un Paese dove i lavoratori hanno la più alta copertura salariale, il più forte potere d’acquisto insieme a una protezione previdenziale e sanitaria invidiabile?
Ma a quel livello salariale si è giunti grazie alla messa in campo di un sistema contrattuale, compreso il salario minimo, finalizzato a sostenere e proteggere il salario e il loro potere d’acquisto.
Mi spiace, ma è del tutto banale sostenere, come è stato sostenuto nella recente audizione alla Camera, che in Germania si è dovuti giungere a quella scelta perché la soglia di copertura dei contratti nazionali è intorno al 50%.
Perché ciò è certamente vero, ma che è anche del tutto sbagliato scambiare un punto per il tutto e cioè non considerare che, in Germania, il contratto nazionale è solo una parte di un sistema più ampio di contrattazione, la cui somma, ivi compreso il salario minimo, poi realizza di giungere al montante del salario più alto e più forte di tutta l’Europa.
Intanto perché la contrattazione salariale è annuale e non come da noi triennale. Essendo annuale il potere d’acquisto e gli aumenti salariali vengono garantiti in maniera sicura, proprio in ragione di un tempo breve nel quale si può ragionevolmente prevedere l’andamento della congiuntura economica e lo stato delle imprese.
Inoltre perché sta anche nella libera determinazione del sindacato rivendicare oltre al potere d’acquisto anche un aumento netto salariale, utilizzando una parte della produttività media del settore.
A questo si aggiunge non un secondo livello formale di contrattazione, bensì la pratica di una contrattazione diffusa e di fatto permanente sui luoghi di lavoro, nel quale si raccordano e convergono, momento per momento, gli andamenti del flusso produttivo con quelli della prestazione e quindi dei salari.
Ciò è anche il frutto di una cultura delle relazioni industriali che risale alla legge sulla Mitbestimmung per le imprese di maggiore dimensione, del 1953, ma che nel corso degli anni ha permeato tutto il sistema produttivo tedesco al di là della stessa dimensione d’impresa, basti solo guardare all’andamento dei salari nel Baden Wuttenberg, dove operano quasi esclusivamente, piccole, piccolissime e micro imprese legate nella filiera della componentistica dell’automotive.
E su tutti i luoghi di lavoro, quel salario nazionale si incrementa sia nel rapporto con la produttività, ma anche, quando ce ne sono le condizioni, con una ripartizione verso i lavoratori di una quota degli utili d’impresa.
E il cerchio poi si chiude in basso con il salario minimo per proteggere la parte più debole del lavoro, operante nei settori a minor valor aggiunto.
Da noi invece il contratto nazionale ha cadenza triennale e per questo, specie in un momento in cui nessuno è i grado di prevedere cosa succederà fra tre mesi, immaginiamoci fra tre anni, la copertura del potere d’acquisto è del tutto incerta.
In più se è vero che, al di là dei contratti pirata, vi sono più di quattro milioni di lavoratori in nero, ciò vuol dire che un terzo dei lavoratori non sono coperti dal contratto nazionale. Poi nel nostro “Bel Paese”, ovviamente evadere i contratti non è reato perseguito dal codice penale, anche quando denunciato dal numero sparuto di ispettori del lavoro in azione, ma ce la si cava quasi sempre con una modica sanzione amministrativa.
Il secondo livello di contrattazione poi è esercitato intorno al 15% delle imprese, il che vuol dire che l’85% ha solo il livello nazionale quando non è evaso o non venga nemmeno rinnovato alla scadenza e magari anche senza l’ultrattività.
E ovviamente in basso, dove prolificano le disuguaglianze, la frantumazione del mercato del lavoro e del lavoro povero, non c’è nemmeno, almeno come base minima di sostegno, un salario minimo.
E’ l’insieme di questo sistema che poi giustifica il dato che le retribuzioni dei lavoratori italiani sono ferme nel loro potere d’acquisto alla fine degli anni novanta del secolo scorso e tra i più bassi tra i Paesi dell’Ocse.
Ma per il Cnel un salario minimo, in questo scenario, sarebbe addirittura uno strumento inutile se non anacronistico e dannoso.
Sarebbe forse buona cosa se il Presidente e la sua Commissione, intanto che il Governo decide sulla materia, continuassero qualche altra audizione, magari chiedendo al premio Nobel dell’economia David Card o a Stiglitz, la loro opinione in merito, per comprendere meglio anche il rapporto positivo tra salario minimo e aumento dei livelli di occupazione; tra salario minimo e rafforzamento della contrattazione e salario minimo e aumento della domanda aggregata.
Ma forse basterebbe anche solo una lettura superficiale dei loro testi, per riuscire a scrostarsi di dosso quella deludente patina di burocrazia e di provincialismo che si desume purtroppo dalla lettura del loro rapporto.
Walter Cerfeda