La nostra Nunzia Penelope ci aggiorna egregiamente sulle vicende ingarbugliate del salario minimo. Tuttavia ci sono in giro altre tesi e motivazioni che meritano attenzione. Per esempio La Repubblica del 25 settembre attribuisce a Enrico Letta la seguente considerazione:….”qui da noi un lavoratore su cinque non è coperto da alcun contratto collettivo (uno su tre nella ristorazione e nei servizi di istruzione e assistenza)”.
Conosco una sola categoria di lavoratori per i quali non esiste un Contratto nazionale. Si tratta dei dipendenti dagli studi professionali non ordinistici. Una parte di essi applica comunque il Contratto stipulato da Confprofessioni con Filcams-Cgil, Fisascat-Cisl e Uiltucs-Uil. Confassociazioni lo vorrebbe firmare, ma gli autori del Contratto non la vogliono tra i piedi anche perché (sussurrano i maligni) ci sarebbe da condividere la gestione della bilateralità.
Quindi c’è una bella differenza tra il dire che mancano i contratti oppure che (pur esistendone anche troppi) non sono rispettati. E anche qualora si avesse un minimo per legge non è detto che scomparirebbe dalla scena il fenomeno dei finti part time (lavori otto ore, ma facciamo finta che siano quattro).
Recentemente in taluni ambienti accademici è spuntata un’altra questione anche in relazione al Reddito di cittadinanza. Si dice che le differenze del costo della vita tra diverse realtà territoriali sono tali e tante che sarebbe giusto diversificare. E’ una storia vecchia. Una parte del mondo sindacale si era illusa di potervi porre rimedio con la contrattazione di secondo livello, ma che non può funzionare se collegata soltanto alla produttività. Ritorna una vecchia problematica: perché coloro che proclamano la bontà di idee nuove non si candidano mai a sperimentarle sulla propria categoria?
Aldo Amoretti