Non mancano gli argomenti validi a spiegare perché in Italia i salari stagnino. Anzi, diminuiscano, perché la verità è che, progressivamente, ma nemmeno tanto, le retribuzioni stanno perdendo potere di acquisto impoverendo i lavoratori. Ci sono state le tante crisi economiche, c’è stata la pandemia, ci sono le guerre e c’è l’esplosione dell’inflazione, che tutti credevamo sopita e che invece ha prepotentemente rialzato la testa.
Giustamente Nunzia Penelope su Il diario del lavoro ha ricordato come i sindacati, stretti in tante difficoltà, per salvare l’occupazione e il lavoro, siano stati costretti alla moderazione salariale. Il problema è che la moderazione salariale porta le imprese a competere sul basso costo del lavoro, a disinvestire nella ricerca, a finire così nella parte bassa della catena della produzione. Maurizio Del Conte ci ha spiegato molto bene in una recente intervista che in questo modo si cade nella bassa produttività, nei bassi salari, avvicinando sempre più questi ultimi alla soglia della povertà. Al punto che il confine è sempre più stretto e l’insofferenza cresce. Ormai è a rischio la tenuta sociale, certamente è in crisi la coesione sociale.
Non c’è bisogno di insistere sul pericolo che corre la democrazia per capire che forse è arrivato il momento di mettere le mani nei meccanismi della contrattazione, perché sono questi che ci conducono verso la povertà. Sarebbe ora, per esempio, di rimediare a un errore di fondo commesso dalle parti sociali qualche anno fa. Per la precisione nel 2009, quando si raggiunse un accordo tra governo e parti sociali per regolare la crescita salariale. Compito affidato ai contratti nazionali di categoria che dovevano far aumentare i salari sulla base dell’inflazione secondo il parametro dell’Ipca.
Quell’accordo non fu firmato dalla Cgil, ma le intese successive, che quel parametro accettavano, portavano la firma della sua segretaria generale Susanna Camusso. Di moderazione salariale si parlava anche prima, ma la grande intesa del 1993, che chiuse l’era della scala mobile, affidava la crescita dei salari ai contratti nazionali, con un’importante apertura però, perché era previsto che gli aumenti salariali indicati dai rinnovi contrattuali potessero essere anche superiori all’inflazione, per consentire così una distribuzione dei proventi della produttività.
In realtà i rinnovi contrattuali successivi al 1993 non andarono mai al di là dell’inflazione e l’intesa del 2009 stabilì che quella linea non doveva mai essere superata. E andò anche oltre, perché, riferendosi all’Ipca, stabilì che l’aumento dei minimi salariali doveva seguire l’andamento dell’inflazione e che nel computo non si doveva tener conto degli aumenti dei prezzi dei prodotti energetici importati. In questo modo si condannarono i salari a una progressiva perdita di potere di acquisto. Probabilmente non si dette allora molto peso a questa esclusione, ma gli anni successivi hanno dimostrato che la decrescita sarebbe stata anche molto forte. Il Patto della fabbrica del 2018 confermò il meccanismo.
Eliminare quel riferimento sarebbe oggi un gesto importante. Anche perché la crescita dei salari è affidata anche alla contrattazione aziendale, ma questa interessa solo una parte ristretta dei lavoratori. Forse il 30% del totale, quelli occupati in aziende grandi (poche) e medie (nemmeno tante). Tutti gli altri si devono accontentare di una somma stabilita nei rinnovi contrattuali, una specie di risarcimento, sempre però molto contenuta, spesso anche contestata. E in questo modo emerge un’altra occasione di disparità, oltre a quella di genere e a quella che penalizza giovani e immigrati, quella cioè tra i lavoratori delle grandi aziende e quelli delle piccole, a tutto danno di questi ultimi.
Eliminare il riferimento ai prodotti energetici importati sarebbe allora un atto di giustizia e di unità. Certo non facile, perché si tratterebbe di riprendere l’intero discorso sul ruolo delle parti sociali, sul valore del lavoro, sulla realtà della rappresentatività. Temi che nessuno al momento è in grado di affrontare, alcuni tentativi avviati negli scorsi anni sono sempre abortiti. Troppo ampie le distanze tra le parti sociali e tra queste e il potere politico, quest’ultimo più incline alla disintermediazione che al rafforzamento delle rappresentanze sociali, ritenute potenziali concorrenti nella corsa al potere. Certo, se ci fossero classi dirigenti degne di questo nome, le difficoltà potrebbero essere superate in nome degli interessi generali. Ma non accade. Non accade un po’ in tutto il mondo, ma questo non ci consola e non ci toglie dai guai.
Massimo Mascini