“Non so se si può parlare di un vero e proprio crumiraggio, ma delegittimare in questo modo il diritto allo sciopero è una mossa molto pericolosa”. Riccardo Saccone, segretario nazionale della Slc, la categoria della Cgil che rappresenta il mondo dell’informazione e dello spettacolo, commenta così quello che sta avvenendo in Rai, dove lo sciopero indetto dall’Usigrai, contro le censure e i bavagli, la riduzione degli organici, metodi di selezioni non trasparenti e la mancata applicazione del giusto contratto, è stato non solo ostacolato dall’azienda ma anche dall’Unirai, il neonato sindacato di destra.
Saccone la preoccupa la situazione?
Vede il diritto allo sciopero, così come quello a non scioperare, è sacro. Un sindacato può legittimamente non riconoscere le ragioni che portano allo stato di agitazione, ma ostacolarlo così, a braccetto con l’azienda, non è un’azione molto cauta, perché si rischia di segare il ramo sul quale si sta seduti. Se un giorno poi anche loro vorranno scioperare, che autorevolezza potranno avere davanti all’azienda? Qui non si tratta di essere semplicemente contro il governo, ma di essere al fianco delle rivendicazioni dei giornalisti.
La presa del governo Meloni sulla Rai è un fenomeno del tutto nuovo, oppure si tratta di una pratica già vista, ma che ora assume toni e contorni sempre più forti e marcati?
La Rai da anni è bloccata, ma ora siamo al parossismo. C’è una crisi di contenuti, investimenti e ascolti. L’azienda ha un debito da 600 milioni di euro, e il piano industriale per i prossimi tre anni, quantificabile in 220 milioni, è un piano fantasma, insufficiente a trasformare la Rai una digital company, e che si basa per la quota maggioritaria, 190 milioni, in privatizzazioni. Si vendono quindi i beni di famiglia. Per un’azienda che dovrebbe vivere di immaginazione e di idee non è pensabile che possa guardare al futuro tagliando o limitando chi esprime le proprie opinioni. La Cgil è dal 2016, dalla riforma di Renzi, che chiede un cambio di passo per ridare centralità al servizio pubblico che è un bene del quale non possiamo fare a meno.
Che cosa si dovrebbe fare?
La riforma di Renzi ha messo in mano al governo di turno il controllo dell’azienda. Un passo indietro per quanto riguarda la pluralità e l’indipendenza dell’informazione rispetto alla legge del 1975, che affidava la tutela di questi due valori alla Commissione parlamentare. Il Parlamento, infatti, offre uno spaccato di tutte le sensibilità politiche, mentre l’esecutivo rappresenta solo una fetta di paese. Serve dunque una riforma della governance. C’è poi la questione di riaccendere l’amore dell’opinione pubblica nei confronti della Rai. Se il servizio viene impoverito la gente se ne allontana. È lo stesso meccanismo che stanno mettendo in piedi con tutto il pubblico, sanità, scuola, trasporti. Altro tema non secondario è quello del canone. Si è deciso di tagliarlo di 20 euro, e ci sono forti incertezze anche sul metodo di riscossione, se viene tolto dalle bollette. In questo modo, infatti, i 400 milioni di canone dovranno essere pietiti di volta in volta.
Quale strada andrebbe seguita?
L’articolo 5 del regolamento europeo relativo al servizio pubblico parla di Cda indipendenti e di finanziamenti autonomi e costanti. Caratteristiche che al momento la Rai non possiede. Nell’era dell’informazione digitale, dove non sempre la pluralità e l’indipendenza sono tutelate dall’algoritmo, avere un servizio pubblico forte è necessario. La Slc, inoltre, sta sostenendo tre ricorsi presentati al Tar per le nomine del Cda. Nomine che dovrebbero essere sottoposte a una procedura di selezione, ma che nella pratica non viene mai seguita. Se i ricorsi dovessero andare in porto, ci sarebbe il blocco del Cda, tranne che per la parte votata dai lavoratori.
Tommaso Nutarelli