RRR. È il titolo del film indiano fino ad oggi più costoso, con incassi da record. Narra le avventure di Rama Raju e Komaram Bheem, forzuti e implacabili vendicatori, i quali, fianco a fianco, “l’amicizia tra un vulcano e una tempesta”, sfidano il perfido governatore britannico e la moglie sadica, colpevoli di aver portato via da un villaggio la giovane Malli.
Il pretesto è storico, anni Venti del secolo scorso, e fa riferimento a due capi tribù ribellatisi contro l’oppressore britannico: Nella realtà non si sono mai incontrati ma gli sceneggiatori fanno volare la fantasia e le mirabolanti gesta dei protagonisti diventano una favola per adulti. Due super eroi impastati con la mitologia indù.
RRR è l’acronimo di Rajamouli (il regista), Ram Charan e Rama Rao, (gli attori principali), ma può anche essere letto come Raudram Ranam Rudhiram (furia, guerra, sangue) o, in inglese, Rise Roar Revolt (rialzarsi, ruggire, ribellarsi). È un kolossal ambizioso, con una moltitudine di comparse, costumi coloratissimi, scene acrobatiche, scontri mozzafiato. Come da tradizione del cinema di Bollywood, ci sono anche spezzoni di musical, con balli e canti.
E proprio le canzoni imprimono alla pellicola un tono inquietante. Ecco alcune strofe, declamate con grande enfasi: “Questo popolo non si inchina davanti a nessuno”, “Il petto arde, il cuore arde, le braci non smettono mai di ardere”, “Facciamo sventolare la bandiera che dà un senso alla nostra vita”, “Le nostre menti si infiammano di entusiasmo”, “Chi oserebbe mai sfidarci adesso?”, “I tamburi della vittoria risuonano ovunque”, “Siamo pronti a indossare il turbante del sacrificio ogni volta che le trombe squilleranno”, “C’è un uomo d’acciaio in ogni strada e in ogni casa”.
E anche le citazioni di figure del passato sembrano fatte apposta per incitare ad una perenne mobilitazione. Ecco il richiamo a personaggi quali la regina Kittur Chennama (1778-1829), morta prigioniera, o Pazhassi Raja (1753-1805), il leone del Kerala, anch’egli ucciso da mano inglese. Non manca il nostalgico tributo al potente impero Marahata, cui pose fine nel 1818 la Compagnia delle Indie.
“Vande Mataram”, grida la folla esultante. Significa “io ti saluto grande madre terra”, una personificazione dell’India, tratta da un’ode contenuta nel romanzo “Il monastero della felicità” dello scrittore bengalese Bankim Chandra Chattereji. L’orgoglio per le proprie radici assume una valenza mistica. E in questo tripudio indù, il Mahatma Ghandi è il grande assente. Dimenticato. Altro che non violenza! Trionfa l’elogio delle armi e di chi le usa.
Il cinema, si sa, può diventare propaganda. Lo fu durante le dittature, come ben sapevano Mussolini, Hitler e Stalin, ma lo è anche in democrazia. Senza andare tanto indietro basti pensare a Rochy Balboa, alias Sylvester Stallone, che piega davanti al pubblico moscovita Ivan Drago, il micidiale pugile sovietico, prodotto di laboratorio, che avrebbe voluto “spiezzarlo” in due. Eravamo nel 1985. Anche quei pugni contribuirono al crollo del muro di Berlino.
Ora, però, siamo entrati in un’altra dimensione, permeata di bellicismo nazionalista. Non c’è solo l’India, ovviamente. La Cina porta sul grande schermo i propri campioni, tipo un’agente segreto che in Africa sfida e vince, difendendo il popolo nero, gli abietti americani neocolonialisti. La Turchia non è da meno: una serie televisiva, The Protector, a difesa di Istanbul mette in campo addirittura un’immortale.
È come se ogni Paese volesse ostentare vecchi e nuovi idoli in attesa dello scontro finale. Ognuno con il proprio Dio, la propria Patria, la propria Famiglia. Vengono i brividi.
Curiosità: una scena di RRR è stata girata, nell’agosto del 2021, a Kiev.
Profezia?
Marco Cianca