Da quando esistono le automobili, a Roma esistono gli sfasciacarrozze. Un nome, questo, che ha origini più antiche, riferendosi alle demolizioni dei vecchi carretti, e con cui, comunque, vengono da tempo designati i cosiddetti demolitori auto. Demolitori che con le loro piccole imprese, dette appunto “sfasci”, costituiscono una caratteristica tipica del paesaggio industriale e sociale delle periferie romane.
Così è e così è stato, da un secolo a questa parte. Ma potrebbe non essere più così già in un prossimo futuro. O, almeno, questo è ciò che temono i proprietari del centinaio di aziende che animano nella Capitale il settore delle demolizioni auto e i circa 1.400 lavoratori che prestano in esse la propria opera. Tanto che, negli ultimi giorni, i primi, con l’appoggio dei secondi, hanno già dato vita a un’iniziativa di lotta che, fin qui, si è concretizzata in una serrata che assomiglia molto a uno sciopero generale di settore e a due manifestazioni. La prima, giovedì 28 giugno, ha avuto luogo presso la sede della Prefettura, tra piazza Venezia e piazza Santi Apostoli. La seconda, lunedì 2 luglio, sulla piazza del Campidoglio.
Perché abbiamo detto che è in corso una serrata che assomiglia a uno sciopero? Perché l’iniziativa è stata assunta dalle imprese del settore attive nella Capitale; imprese che, a livello nazionale, fanno capo all’Ada, l’Associazione nazionale demolitori auto. E tuttavia va detto, e questo è un dettaglio interessante, che i dipendenti sostengono l’iniziativa assunta dai loro datori di lavoro. Perché, dopotutto, si tratta della loro pelle, oltre che di quella dei “padroni”, e dei “padroncini”, per cui lavorano.
Ma cos’è che mette a rischio i posti di lavoro di un migliaio e mezzo di persone in una città che, da tempo, sta già vivendo una fase di declino produttivo e decrescita occupazionale?
La storia è lunga e anche abbastanza complicata. Per capirne qualcosa il Diario del lavoro ha interpellato Anselmo Calò, un imprenditore romano che, oltre a essere titolare di un’impresa familiare attiva nel settore demolizioni, abbastanza nota in città, è anche, da quest’anno, Presidente dell’Ada.
La storia comincia nel 2000, quando una direttiva dell’Unione Europea stabilisce che le attività di demolizione possono essere effettuate solo su aree dotate di determinate caratteristiche, come essere esenti da vincoli paesaggistici o archeologici, non essere troppo vicine a edifici di determinati tipi, e simili. Nel 2003, una legge italiana recepisce la direttiva Ue, definendo la possibilità di fornire alle imprese di demolizione auto – collocate in siti che risultassero irregolari in base ai criteri contenuti nella nuova normativa – l’autorizzazione a proseguire nella loro attività per il tempo necessario al loro trasferimento in collocazioni idonee.
A Roma, spiega oggi Calò, tali trasferimenti non sono però mai stati neppure avviati. E ciò nonostante che già tre anni prima dell’adozione della direttiva da parte della Ue, ovvero nel 1997, il Sindaco dell’epoca, Rutelli, si fosse – per così dire – portato avanti col lavoro, individuando delle aree non edificate adatte a ospitare le attività di demolizione. Ciò nell’ambito del Piano regionale rifiuti di cui si era nel frattempo dotata la Regione Lazio. L’attività di demolizione auto, infatti, ha una evidente valenza ambientale. In base alle normative vigenti, le diverse parti e i diversi materiali di cui è composta un’autovettura devono essere avviate, dopo la demolizione, verso destini diversi. L’acciaio della carrozzeria può essere sostanzialmente riciclato. Le batterie vanno invece conferite al Consorzio delle batterie esauste. Diverso ancora il destino dei cristalli dei finestrini. E così via.
Ebbene, le aree individuate vent’anni fa da Rutelli avrebbero dovuto essere acquistate dal Comune allo scopo di poterle poi assegnare alle imprese di demolizione. Ma ciò non è mai avvenuto e, spiega ancora Calò, considerando le proporzioni del consumo di suolo a scopo edilizio che si è sviluppato nelle aree periferiche della Capitale in un arco di tempo così lungo, è improbabile che tali aree siano ancora disponibili.
E qui la cosa diventa grave. Perché col 30 di giugno, ovvero alla fine della settimana scorsa, sono venute a scadere le autorizzazioni a svolgere la propria attività là dove sono insediate di cui godevano le varie aziende attive a Roma.
Per il Comune di Roma, o, per essere più precisi, per Roma Capitale, i tempi sono scaduti e, a quanto si comprende, non c’è più nulla da fare. Con tutte le conseguenze del caso.
La lotta avviata dall’Ada, invece, si è posta degli obiettivi non solo precisi ma, ad avviso dei demolitori, anche raggiungibili. Partendo dalla constatazione che fra 60 e 70 delle imprese di demolizione oggi esistenti a Roma devono necessariamente trasferirsi verso aree più idonee alla loro attività, mentre una trentina devono attuare varie modifiche rispetto ai propri attuali insediamenti, sono state elaborate tre richieste principali.
Primo, che le autorità preposte individuino finalmente le aree in cui effettuare i richiesti trasferimenti. Secondo, che vengano prorogate le autorizzazioni ad operare nei siti attualmente occupati, in attesa del momento in cui sarà possibile effettuare i trasferimenti. Terzo, che venga assunto immediatamente un provvedimento ponte che, da subito, consenta alle imprese di demolizione di proseguire nella propria attività fino al momento in cui saranno concesse le proroghe di cui al secondo punto.
A dirlo così, certo, può apparire un pacchetto di richieste macchinoso ma, secondo l’Ada, questa è l’unica sequenza possibile di provvedimenti che eviti la morte di un intero settore della vita economica della Capitale.
“Oggi – spiega ancora Calò – il meccanismo è questo. I concessionari ritirano dai clienti che intendono acquistare auto nuove le loro auto usate. Dopo di che, si rivolgono a noi che andiamo a prendere le auto da demolire. Ora se, a un certo punto, cioè adesso, noi dobbiamo sospendere le nostre attività, i concessionari saranno costretti a cercare altri demolitori, anche se potranno trovarli quanto meno fuori dalla città metropolitana, se non addirittura fuori Regione.”
“Ebbene – prosegue Calò – credo che sia del tutto evidente che un’impresa non può restare viva in presenza di una sua inattività temporalmente indefinita. Prima si perdono i clienti, poi i fornitori, i rapporti con le banche e, insomma, tutto. Dopodiché non resta che licenziare i dipendenti e chiudere la baracca. E’ questo quel che vuole il Sindaco Raggi?”
Una sequenza di accadimenti, questa, che può diventare anche più allarmante se si considera l’ipotesi che, a causa del paventato stop alle attività di demolizione, qualche carcassa di auto abbandonata vada ad arricchire, se così si può dire, la già variegata casistica di rifiuti che fanno mostra di sé lungo le strade della Capitale.
Per venerdì 6 luglio, intanto, è stato convocato un tavolo attorno a cui dovrebbero incontrarsi i rappresentanti di Roma Capitale e della Regione Lazio. La speranza di tutti è che qualche percorso risolutivo possa essere individuato prima che sia troppo tardi.
@Fernando_Liuzzi