Il lavoro come ideologia
Nella concezione della Cgil ( diverso è per la Cisl) il lavoro , la ‘classe’ , esiste già in principio in ragione della divisione del lavoro, e delle contraddizioni sociali che ne derivano. Ma per esistere fattualmente , per raggiungere i suoi obiettivi, ha bisogno dell’azione sindacale.
Alle origini, guardando al dopoguerra, lavoro e sindacato non sono la stessa cosa , ma nell’universo Cgil costituiscono una endiadi difficilmente separabile.
Il lavoro è al centro di tutto, ma grazie al sindacato che si limita però a raccoglierlo e organizzarlo. Il lavoro è dato senza troppe specificazioni, e si trova già bello e pronto, per essere plasmato e protetto dall’azione sindacale. Non esiste l’interrogativo : quale è il lavoro? Il lavoro , uno ed indivisibile, centrale nella vita personale e sociale , è quello che si trova nel sindacato. E’ quel lavoro che solo molto tempo dopo Aris Accornero descriverà come “ideologia” (Accornero, 1979). Ma è un lavoro che viene per lungo tempo presentato e considerato come un dato naturale, e da cui non si può soggettivamente prescindere. Insomma è il lavoro maiuscolo del Novecento, in parte reale , in parte idealizzato, che assorbe totalmente ogni dimensione individuale e collettiva.
Solo in seguito , e possiamo considerare l’analisi di Accornero come una sorta di spartiacque, diventa più problematico capire cosa sia e stia diventando il lavoro ( e lo stesso Accornero mostrerà successivamente l ’esistenza di percorsi plurali). Infatti esso non solo si sta complicando e differenziando, rendendo così più difficile raffigurarlo in una chiave semplice e sintetica, ma risulta anche sempre meno rappresentato in modo automatico dal sindacato.
Lo sfondo del Piano del lavoro di Di Vittorio
Per accompagnare questa evoluzione, e le domande analitiche che suscita, ripercorriamo alcune delle principali elaborazioni prodotte , in momenti diversi, da segretari generali della Cgil. Le loro argomentazioni ci aiutano a capire come si colloca la questione del lavoro nel modo di concepirlo e di costruire l’azione sindacale ad opera della Cgil ( o almeno delle sue espressioni ufficiali e riconosciute).
Non si può naturalmente prescindere dai concetti espressi da Giuseppe Di Vittorio, per mettere a fuoco il connubio genetico lavoro-sindacato che permea la Cgil post-bellica e ne rafforza la spinta generalista: a rappresentare tutto il lavoro senza distinzioni.
Per estrapolare qualcuna delle analisi, sempre battagliere ma anche molto precise , di Di Vittorio faremo riferimento ad uno dei suoi testi più completi e maturi, apparso in un famoso volume collettaneo sui sindacati in Italia ( Aa.Vv:, 1955, a soli due anni dunque dalla sua morte).
Di Vittorio sostiene il “fatto indiscutibile che nella società capitalistica il livello medio dei salari della classe operaia determina quasi automaticamente il valore (se non il prezzo) del lavoro di qualsiasi altra professione manuale e intellettuale “. E’ un argomento che potremmo definire a sostegno di una sorta di ‘centralità operaia’ nel mondo del lavoro. Il lavoro dell’epoca, spesso socialmente diffuso e con connotati poco definiti, non era così operaio come la Cgil amava pensare: ma proprio questo costituiva il prototipo del lavoro strutturato e tecnicamente avanzato. Insomma era il lavoro fordista , cruciale nell’immaginario dell’epoca , che pure scontava, oltre ad una sua incompleta diffusione, una forte presenza di lavoro agricolo e di lavoro informale. Anche quando Di Vittorio scriveva nel 1955 in realtà, agli albori del miracolo economico, quel tipo di lavoro si stava affermando e diffondendo, ma non generalizzando : anzi il dato di fondo con cui Cgil e sinistra hanno avuto a lungo la difficoltà di fare i conti è che non si è mai così generalizzato, come presupposto dalla sua rappresentazione.
Dentro questa prospettiva il sindacato svolge una funzione necessaria che ne legittima l’esistenza. Infatti è possibile osservare – secondo Di Vittorio – che “ vi è stato uno sviluppo parallelo del movimento operaio e delle conquiste operaie, da una parte, e della produzione e del reddito nazionale dall’altra”.
Di Vittorio conosce bene, specie al Sud , l’esistenza di un lavoro magmatico difficilmente assimilabile al lavoro operaio fordista ( salvo scoprire la virtù salvifica dell’espressione ‘lavoro esecutivo’). Tanto è vero che in molto scritti e discorsi egli parla di ‘popolo lavoratore’ , un’espressione di portata più ampia e maggiormente aderente alle condizioni produttive dell’Italia dell’epoca. Una espressione che mostra anche la sua voglia di andare oltre le simbologie marxiste classiche ed un tantino semplificatrici per rivolgersi a tutti coloro che davvero lavorano. Ma, come si può vedere nel brano che abbiamo riportato sopra, nel linguaggio ufficiale il lavoro che spicca – come riferimento e come nucleo normativo – resta quello operaio.
Il sindacato ne aiuta anche lo sviluppo e la piena affermazione , come avviene pure nei ‘paesi socialisti’ ( il testo utilizzato precede il 1956 e le rotture che ne derivarono). Infatti Di Vittorio sostiene “ che la storia ha dimostrato che l’esistenza di un sindacato efficiente e la sua attività quotidiana per garantire il più elevato livello di vita possibile ai lavoratori sono necessarie ed insostituibili, come una leva del progresso generale, , anche negli stati socialisti”.
Comunque anche in questo lungo scritto si trovano altre espressioni che lasciano intendere l’esistenza di un lavoro più proteiforme: come masse lavoratrici , classi lavoratrici e così via.
Come è noto, una delle proposte principali della Cgil di Di Vittorio per dare un forte impulso al miglioramento sociale e alla lotta alla disoccupazione, nel contesto economico della Ricostruzione , è consistita nella presentazione nel 1949 della proposta del ‘Piano del Lavoro ’, da cui è possibile enucleare anche l’idea del lavoro e di mondo del lavoro che essa intendeva promuovere. Alla base di questa idea si trova il giudizio su “un’industria scarsamente sviluppata” e “un’agricoltura estremamente arretrata”: la posta in gioco quindi è quella di stimolare l’economia per dare esito pratico “ alle grandi possibilità di sviluppo della produzione e dei servizi necessari”. Si tratta in definitiva di sfruttare potenzialità inutilizzate che hanno condotto a due milioni di disoccupati e a “ altri milioni di sottoccupati, cioè lavoranti ad orario ridotto o solo saltuariamente occupati”: cosa che conferma l’esistenza di un mercato del lavoro, prevalentemente subalterno, tutt’altro che omogeneo.
Di Vittorio contesta, come causa della situazione di quel momento , il comportamento delle classi dirigenti (capitalistiche), e parla di un quadro sociale che si risolve in un atto d’accusa : “ milioni di disoccupati , da una parte, e grandi lavori produttivi che non si eseguono , dall’altro”. In questa analisi la causa strutturale consiste nella logica monopolistica del capitalismo che strozza lo sviluppo in funzione della “ferrea legge dei più alti e facili profitti”.
Il potere dei monopoli – nella ricostruzione di Di Vittorio – limita la crescita del mercato interno e porta al “ super-sfruttamento degli operai e degli impiegati e all’impoverimento del ceto medio”.
Di qui la necessità di una scossa incentrata sulla “classe operaia , assieme a tutti i lavoratori e ai ceti medi del popolo”. Da ciò deriva la proposta del Piano , orientato a far decollare una nuova politica economica espansiva. Ed anche la disponibilità della classe operaia di “addossarsi anch’essa, volontariamente, alcuni dei sacrifici iniziali necessari per l’attuazione del Piano”.
Dunque classe e sindacato di fatto coincidono in questa visione e Di Vittorio parla, o ritiene di parlare, a nome di tutti i lavoratori, anche quelli potenziali.
In un’ottica di intervento che non si riduce alla difesa corporativa degli interessi rappresentati.
Infatti “ i sindacati operai non limitano più la propria sfera d’azione alla difesa e al miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori , sul terreno professionale e di classe, ma l’estendono alle esigenze imperiose di rinascita economica della nazione” .
Da queste tesi si ricava quale sia l’immagine del lavoro per la Cgil, che leggeva l’evoluzione del capitalismo – la fase fordista e monopolista- come non solo una fase di maggiore sfruttamento, ma anche si semplificazione della composizione del lavoro. Solo in seguito , dai primi anni sessanta, si mise a fuoco che il salto tecnologico nello sviluppo – il ‘neo-capitalismo’ delle economie miste – corrispondeva anche a nuove differenziazioni interne alla forza-lavoro.
Ma per Di Vittorio il lavoro era questo . Un lavoro in sostanza manuale ed esecutivo, non necessariamente coincidente con l’operaio manifatturiero, ma che si risolveva in sostanza , e in modo generalizzato, in un universo di lavori di alta quantità e poca qualificazione disseminati nei diversi ambiti produttivi : come quelli evocati dai programmi di lavori pubblici per allargare la sfera occupazionale.
Comunque, con qualche attitudine anticipatoria , Di Vittorio insiste anche sulla libertà del lavoratore . Infatti al Congresso della Cgil del 1956 parlerà , oltre che del ‘ritorno alla fabbrica’, della esigenza di dare ai lavoratori “la libertà di poter sviluppare, senza ostacoli o limitazioni, la propria personalità morale, intellettuale o politica”.
Nei due decenni successivi l’evoluzione del lavoro sembra dare ragione alla Cgil , accrescendo gli elementi fordisti e uniformanti già enfatizzati in passato. I sociologi più radicali accompagnarono e rafforzarono con le loro interpretazioni l’orizzonte sociale che era diventato egemonico. E che si dispiegò pienamente nel lungo decennio inaugurato dall’Autunno caldo. Un decennio contrassegnato dalla potenza espansiva del ‘modello proletario’ . E quindi ruotante intorno all’operaio generico della grande industria, ‘l’operaio massa’ derivante da alcune rappresentazioni sociologiche : la figura che sembrava racchiudere l’intero universo lavorativo. Anche in questo caso si trattava di una evidente forzatura . Già nel 1974 Sylos Labini avvertiva , dati alla mano, come gli operai non fossero la maggioranza all’interno del sistema produttivo e della struttura sociale del nostro Paese . E la scelta compiuta in quel frangente di unificare il punto di contingenza in nome dell’egualitarismo salariale si dovette scontrare con differenze sociali e professionali difficilmente comprimibili. Come è noto la Cgil si adattò a questa decisione, voluta soprattutto dalla Cisl, ma finì per restarne prigioniera – con la difesa della scala mobile – più a lungo e più in profondità rispetto alle altre due Confederazioni.
Ma il decennio della ‘centralità operaia’ ( si veda il volume di Aa.Vv., 1978) si esaurì progressivamente , come venne allo scoperto in virtù della sconfitta nel referendum voluto dal Pci contro il taglio dei punti della scala mobile, svoltosi nel 1985. Va detto comunque che quel concetto fu coccolato più dal Partito che dal sindacato, nel quale l’operaismo era assorbente , ma faceva anche i conti praticamente e nella vita quotidiana con una composizione sociale che non rientrava meccanicamente negli schemi preconcetti.
In effetti diventava chiaro che il lavoro stava debordando oltre i confini dell’operaio fordista nei quali era stato cacciato da una tranquillizzante vulgata, la quale veniva però progressivamente smentita dalle trasformazioni produttive e sociali.
In effetti non si manifestava solo l’avanzata dei servizi, che negli Usa aveva già fatto parlare di ‘società post-industriale’. Nonostante qualche abbaglio l’industria resisteva, anche se perdeva colpi la grande impresa industriale. Il fenomeno prevalente con cui la Cgil doveva fare i conti era il consolidamento della terza Italia dei distretti e della ‘specializzazione flessibile’, che già andava oltre il fordismo, e della sua disseminazione attraverso reti di piccole imprese le quali facevano emergere un lavoro diverso: certo operaio, ma meno generico, più flessibile e radicato nel territorio. Gli operai non sparivano , anzi continuavano ad essere il nerbo della seconda manifattura europea , ma essi si trovavano un po’ più soli, immersi in un lavoro demitizzato, diverso dal ‘lavoro come ideologia’ fin lì coltivato dalla Cgil.
Un lavoro più strumentale e più difficile da rappresentare, che poneva alla Cgil dilemmi nuovi e imprevisti.
La citta’ del lavoro di Trentin
Ciò che sembrava facile da unificare con il fordismo diventa di nuovo vario e difficile da afferrare.
E’ questo lo scenario con cui si misura Bruno Trentin , che da segretario generale della Cgil tenta di decrittarlo e di trovare nuove bussole nella ‘crisi del fordismo’: in particolare , ma non solo, nel volume ‘La città del lavoro ’ ( del 1997) con cui mette a punto la sua interpretazione dei principali passaggi degli ultimi decenni.
Esaurita la sua esperienza di leader della Cgil nel 1994, Trentin prova tracciare i diagrammi del sindacato del futuro e del lavoro su cui radicarsi.
Lascia in eredità un’idea di sindacato universalista, il ‘sindacato dei diritti’, che poggia le sue radici sulla ‘persona che lavora’, e manda in soffitta la vecchia ‘classe’. Per diventare “l’espressione di una cultura dei diritti , orientata certamente in primo luogo alla tutela dei lavoratori subordinati, ma sempre a partire dalla singola persona che lavora, e dalla modifica di un rapporto sociale fondato sulla costrizione e sulla totale eterodirezione del lavoro”.
Insomma si tratta di un doppia sfida. Da un lato di mettere a punto un programma più faticoso ed impegnativo rispetto all’impostazione precedente. La persona che lavora non è automaticamente ‘nel’ sindacato e presa in carico ‘dal’ sindacato. Se classe e sindacato erano – nella semplificazione passata – una sola cosa (o quasi), ora il sindacato naviga in mare aperto e deve conquistare il lavoro come si presenta e il lavoratore concreto in ragione dei suoi bisogni effettivi . Da un altro lato è in gioco la capacità di fare i conti con lavoratori che hanno individualità e attese molto specifiche , tutte da decodificare e da rielaborare. E questo allude ad una fatica maggiore della rappresentanza, almeno in parte da reinventare.
Trentin prova a tracciare una strada diversa da quella battuta dalle socialdemocrazie e dai partiti comunisti occidentali che si erano radicate sì tra i lavoratori, ma avevano ‘usato’ il lavoro come oggetto del loro discorso senza renderlo pienamente protagonista. Parte dalla constatazione che “la tematica della liberazione del lavoro , e nei tempi più recenti, quella dell’azione per mutare l’organizzazione del lavoro subordinato sono state quasi sempre relegate, in fin dei conti, in un campo secondario dell’azione politica e sociale”. In altri termini il nodo è come recuperare la soggettività del lavoro, mettendo al centro come punto di partenza e non come mero effetto il soggetto lavoratore.
La critica di Trentin , rivolta ai partiti della sinistra più che ai sindacati direttamente, consiste nell’essersi rassegnati a “collocare la conquista della libertà del lavoro come il fine ultimo del processo di emancipazione, come l’ultima lontana frontiera della democrazia”. Dunque il problema a cui egli intende una dare risposta si traduce in una sorta di rovesciamento: come rendere questa libertà del lavoro e del lavoratore un prius, e non un incerto futuribile, dell’azione sindacale e della politica di sinistra.
E’ vero , naturalmente, che ci sono state conquiste sindacali e sociali importanti, ma “ l’area in cui viene determinato l’oggetto concreto del lavoro, è rimasta finora esclusa …. da qualsiasi forma di negoziazione collettiva, come dalla formalizzazione di diritti inerenti alla persona del lavoratore”.
Quindi l’istanza di fondo che ne consegue si traduce nella ridefinizione degli “spazi di libertà creatività, di autorealizzazione della persona”: una istanza che non riguarda solo il classico lavoro salariato, “ma si incarna sempre più in tutte le forme di lavoro e attività”.
Trentin ha chiaro che il problema, sempre esistito, è rafforzato dal fatto che erano in corso tumultuose trasformazioni del lavoro , i cui esiti restavano difficili da padroneggiare e prevedere. Trasformazioni nel corso delle quali “ vediamo, soprattutto alla periferia del sistema, sempre più rimesse in questione dalle barriere che dividevano rigidamente il lavoro esecutivo dal lavoro creativo, il lavoro salariato dal lavoro autonomo, il lavoro mercificato dal lavoro volontario, il lavoro astratto dalla prestazione personalizzata”.
Il catalogo del lavoro è così diventato più vasto e complicato, denso di eterogeneità e sovrapposizioni. Viene assunta per questa via la piena consapevolezza che l’attività di rappresentanza sindacale , lungi dall’essere meccanica e automatica, deve necessariamente misurarsi con due diversi tipi di sfide.
In primo luogo l’estensione del lavoro umano, nelle sue diverse manifestazioni, che richiedono classificazioni sempre più sofisticate. In secondo luogo l’esigenza di valorizzare la persona lavoratore, le sue capacità e aspirazioni soggettive, a prescindere da quello che fa e dalla tipologia in cui è incasellato il suo lavoro.
Questo lascito segna il passaggio ad una nuova era nella quale la rappresentanza è per definizione da conquistare. E l’imperativo consiste nel riconoscere lavoro e lavoratori nella pienezza delle loro qualità, prescindendo dal modo con cui essi sono inseriti e gerarchizzati nell’organizzazione produttiva.
Trentin aveva capito che si era aperto un passaggio ulteriore che conduceva dalla crisi del fordismo ad un lavoro post-fordista più fluido e dai caratteri più aperti e meno rigidamente classificabili.
Un importante passaggio conoscitivo che imponeva al sindacato di navigare in mare aperto con le due bussole che egli aveva messo a disposizione : la tensione universalistica e quella per la promozione della soggettività del lavoratore.
La scomposizione del lavoro classico e maiuscolo è descritta in parallelo, in altro modo ma nella sostanza equivalente (Accornero, 1997, ) , come slittamento verso il ‘mondo dei lavori’ , non solo plurali e flessibili, ma anche decisamente più discontinui: seppure con una crescita delle occupazioni qualificate e dei contenuti cognitivi che apriva la strada ad una diversa narrativa del lavoro.
Le ricadute sulla concezione del lavoro della Cgil sono restate permanenti. Il Sindacato dei diritti è diventato la stella polare , in senso tanto retorico che normativo, della trama sindacale della Cgil nel nuovo secolo.
Si è tradotto in una sorta di unità di misura dei diritti da includere e tutelare attraverso l’azione sindacale. Un modo per governare le nuove differenze nel lavoro : non era più in gioco la frantumazione del vecchio mondo fordista, bensì una dinamica incalzante imposta da imprese molto più snelle e flessibili. Una dinamica di assoggettamento che spesso eludeva le reti dei diritti precedenti e richiedeva come contrappeso una presenza ‘dentro’ il lavoro disperso e spesso terziario, quindi socialmente diffusa, equivalente al radicamento di fabbrica dell’epoca precedente.
La nuova portata dell’azione sindacale
L’azione successiva della Cgil è bene incarnata dalle intuizioni e dal successo di Sergio Cofferati , all’inizio degli anni 2000, che capisce la portata simbolica e generale del nodo delle tutele per i lavoratori più giovani e costruisce intorno a questo – dentro un clima di forte sfida politica – una platea di supporto larga ed indifferenziata di proporzioni così ampie da essere difficilmente ripetibile.
La Cgil assimila il vero nocciolo della rappresentanza universalistica dei diritti di tutti e lo traduce con varie declinazioni ed adattamenti. Continua a latitare, o a essere fragile, la seconda parte dell’eredità di Trentin : la capacità di valorizzare ‘nel’ lavoro la persona che lavora, un asse la cui rilevanza è attualizzata ed amplificata dalla rivoluzione digitale (Mari, 2019).
Un lavoro più spezzettato e sfuggente, sotto-protetto e difficile da proteggere , rispetto al quale i sindacati si trovano alle prese con l’esigenza primaria di conoscere le sue sfaccettature e di stabilire preliminarmente un contatto pratico : in quanto esso si è imposto largamente fuori dai perimetri consolidati dell’azione sindacale.
Da questa contrastata situazione nasce la suggestione di un ‘lavoro perduto’, ad opera di un successivo segretario generale della Cgil (Camusso, 2012). La sua tesi di fondo è che il lavoro non è oggetto di cura e di investimento per accrescerlo, in quantità e qualità, nel capitalismo post-fordista. E dunque si perdono non solo i posti di lavoro, ma soprattutto si dissipano le opportunità, le prospettive di impiego e di carriera di tanti lavoratori, in gran parte giovani, che non sono utilizzati o vengono sotto-utilizzati. Come si vede, accenti che evocano alcune delle considerazioni avanzate molto tempo prima da Di Vittorio e il ritratto sociale di un lavoro disperso e da ritrovare: e non casualmente Camusso proporrà a sua volta nel 2013 un ‘Piano del Lavoro ’. Insomma la chiave, come è ribadito nell’Introduzione al volume, è quella di “rispondere alle sfide della globalizzazione solo investendo sul proprio capitale umano e creando nuovo lavoro per chi ancora ne è privo”.
Nei ragionamenti della Camusso fa piena irruzione, e non poteva essere altrimenti la precarizzazione del mondo del lavoro. E’ questa la prima emergente frontiera post-fordista che impatta sui sindacati. In effetti i suoi ragionamenti ( che naturalmente non troviamo solo nel libro sopra segnalato, si veda anche ad esempio l’intervista a Massimo Mascini: Mascini, 2017) battono su questo duplice chiodo. In primo luogo prendere atto sul piano analitico della scomposizione del mercato del lavoro, della avvenuta riduzione per tanti delle protezioni ( gli interventi prima di Monti e poi di Renzi sull’art. 18, e non solo), della carenza di possibilità per segmenti crescenti di lavoratori. In secondo luogo polemizzare con le false soluzioni, come quella di ridurre alcuni diritti: “ripeterò fino alla noia che ridurre i diritti agli uni non li aumenta agli altri” ( i più anziani e i più giovani, o detto in altri termini gli insider e gli outsider).
Ma se per larga parte del novecento e fino alle battaglie di Cofferati il protagonismo sociale e politico del lavoro e del sindacato (Cgil, ma non solo) sembravano inevitabili questa stagione più recente consegna maggiori incertezze.
La prima investe la capacità stessa della Cgil ( e del sindacato nel suo insieme) di mettere radici nel nuovo mondo del lavoro sotto-protetto e di indirizzarne i percorsi di riscatto. Appare plausibile che la forza e il radicamento sindacale restino in questi ambiti ancora incerti, nonostante i ripetuti richiami del nuovo segretario generale Landini.
La seconda invece si riferisce al potere di influenza dei sindacati verso le istituzioni e alla sua traduzione in decisioni e misure favorevoli ai lavoratori. Se il Piano del Lavoro di Di Vittorio resta, con lo sguardo di oggi, una importante provocazione verso un sistema politico-governativo ostile, quello avanzato da Camusso si infrange contro la debolezza e l’assenza della politica, a partire dai partiti di sinistra, che incarnavano classicamente i soggetti pro-labor .
Il sindacato, divenuto autosufficiente e ormai orfano della politica, prova a trovare la sua bussola reinventando la rappresentanza del lavoro. Un lavoro non solo pluralizzato, ma anche sempre più spezzettato: al ‘mondo dei lavori’ , preconizzato da Accornero, è ora subentrato il ‘mondo dei lavorini’, ancora più discontinui e sotto-protetti, per di più con maggiori incertezze nelle prospettive di miglioramento nella qualità lavorativa e nella possibilità di coltivare i progetti personali.
Il lavoro ‘ritrovato’ non assomiglia al lavoro che la Cgil vorrebbe o avrebbe desiderato. E’ un arcipelago variegato e di difficile rappresentanza. Il dato nuovo su cui si misura l’attuale segretario generale e la sua Confederazione è quello che l’ampiezza della rappresentanza appare sempre più connessa alla sua profondità: questo lavoro sotto forma di lavorini e insicurezze diffuse per essere coinvolto e messo in rete deve poter anche soddisfare la sua soggettività e la voglia di migliorare. Stanno emergendo forse nella fase attuale i presupposti per ricucire il divario, di cui abbiamo parlato e che abbiamo riscontrato , nella classica postura della Cgil : la battaglia per rappresentare ‘tutti’ non può prescindere più dal rappresentarli ‘meglio’.
Ritrovare il lavoro per potenziare il sindacato: questa la sfida nella quale la Cgil continua ad essere immersa.
Mimmo Carrieri
RIFERIMENTI BIBLIOFRAFICI
Aa. Vv. ( Di Vittorio, Pastore etc.) (1955), I sindacati in Italia, Bari, Laterza
Aa.Vv. ( Napolitano, Cacciari, Accornero etc.) (1978), Operaismo e centralità operaia, Roma, Editori Riuniti
Accornero A. (1979), Il lavoro come ideologia, Bologna, Il Mulino
Accornero A. (1997), Era il secolo del Lavoro, Bologna, il Mulino
Camusso S. (2012), Il Lavoro perduto, Bari-Roma, Laterza
Mari G. (2019), Libertà nel lavoro. La sfida della rivoluzione digitale, Bologna, Il Mulino
Mascini M. (2017), Conversando con Susanna Camusso. Sindacato e politica dopo la crisi, Roma, Ediesse
Trentin B. (1997), La città del lavoro, Milano , Feltrinelli
Di prossima pubblicazione nel volume a cura di Giovanni Mari, « Idee di lavoro e di ozio per la nostra civiltà », Firenze University Press