“Renzo e i suoi compagni” (Alessandro Casellato e Gilda Zazzara, Donzelli editore, 2022) è il bel titolo di una bella biografia collettiva, politica e sociale (o forse sindacale e sociale), che ci accompagna a leggere le trasformazioni produttive e le loro proiezioni nella Cgil tra anni ottanta e novanta del novecento: una lettura focalizzata sul Veneto, ma che ha implicazioni più generali.
Ben scritta e densa, di informazioni, particolari e riflessioni, è una lettura raccomandabile per chi voglia avere qualche analisi più ricca rispetto a quelle di maniera in cui si trovano spesso condensate le rappresentazioni sindacali.
E’ vero che al centro si trova la figura di Renzo Donazzon, segretario generale della Cgil in Veneto in un periodo tumultuoso, prematuramente scomparso a causa di un incidente d’auto, ma anche precocemente sostituito nel suo incarico. E con Donazzon sfilano i profili di tanti dirigenti sindacali veneti, spesso intervistati, e di notevole sottovalutato spessore, che componevano il ritratto di famiglia di quel periodo. A partire dal suo anticipatore e mentore Luigi Agostini, recentemente scomparso, figura sindacale importante e ricca di intuizioni, che mi piace qui ricordare con affetto e che meriterebbe a sua volta una storia ad hoc.
Ma questa ricca traversata – da cui ho appreso che tante cose che non sapevo, o che non sapevo in modo così dettagliato – è l’occasione per gettare uno sguardo in profondità sul dibattito e sulle strategie sindacali del periodo cruciale di passaggio, che prende impetuosamente forma dopo le certezze del fordismo.
Quindi troviamo dispiegata la storia di un intero gruppo dirigente di ambito locale (regionale) della Cgil, che dopo una lunga fase minoritaria si afferma progressivamente in quel periodo come la maggiore organizzazione sindacale in una terra tradizionalmente bianca e democristiana: nella quale, come sappiamo, una parte degli operai veneti votava per la Dc e in seguito massicciamente ha preso a votare per la Lega, venendo solo in parte intercettati dalla sinistra.
In questa storia contano molto le appartenenze radicate e l’impegno militante: quello di Donazzon per il quale, come per tanti, l’identità comunista è un fattore importante. Ma se quello politico è un legame forte e destinato a durare nel tempo, il valore aggiunto messo in campo da Donazzon, e dagli altri a partire da Agostini, è il forte radicamento nella realtà operaia del Veneto. Una realtà in grande trasformazione, in quanto quelli – tra anni ottanta e novanta – erano proprio gli anni nella quale una regione, considerata prima ai margini del grande sviluppo, stava diventando uno dei principali idealtipi del modello della Terza Italia: nel quale erano le piccole imprese agglomerate in distretti a trainare la dinamica economica e il suo successo.
Questo è appunto la scenario che gli autori ci aiutano a decifrare. L’affermazione progressiva di un percorso di crescita diverso da quello della grande impresa fordista, la quale a sua volta si andava riorganizzando, ma che si affermava in modo convulso intorno a sistemi di piccole imprese che raccontavano un rapporto stretto, e per certi versi imprevisto, tra l’economia e la società regionale.
I protagonisti di questa storia – di qui la loro forza – trovavano la loro vitalità nello stare ‘dentro’ questo processo , nell’essere immersi nella realtà produttiva che stava pervadendo il Veneto e in Nord-Est come epicentro di un più vasto sommovimento nazionale.
I soggetti sociali che la incarnavano erano diversi sociologicamente, umanamente e materialmente dall’immaginario precedente. Padroncini, spesso ex- operai, e che si portavano dietro la loro filiera familiare come assicurazione contro i rischi d’impresa (come in quegli anni mostrava in un libro famoso Carlo Trigilia). Operai, spesso giovani e vogliosi di guadagnare da subito, distanti dalle prassi di aggregazione e conflitto proprie delle grandi fabbriche e più che in passato animati da ragioni strumentali. Il piccolo era la cifra prevalente di quelle scosse telluriche: piccole dimensioni aziendali, ma anche delle città e delle cittadine, o paesi, nei quali vivevano gli operai. E nei quali si assisteva anche ad una trasformazione civile e urbana, perché ville e case unifamiliari prendevano il posto di condomini e caseggiati. L’individualismo di mercato e quello dei costumi emergevano insieme e si sposavano rafforzandosi.
Questo è lo sfondo di questa storia. Dell’ascesa e della caduta di un gruppo dirigente sindacale che seppe capirla, radicarvisi e provare a interpretarla. Per quanto spesso colti e impegnati (basti pensare ad Alfiero Boschiero, che è stato responsabile della formazione nazionale Cgil), come erano generalmente i migliori quadri sindacali di quell’epoca, non erano degli intellettuali. Essi capivano ed analizzavano questo grande cambiamento, ma solo in misura limitata si rivelarono in grado di trasferirlo in una elaborazione conseguente. Erano portatori di una scienza pratica, piuttosto che di un modello interpretativo compiuto.
Spesso di formazione operaia, come nel caso dello stesso Donazzon, trovarono il loro punto culminante proprio nella Cgil dell’epoca, dove esercitava la sua leadership Antonio Pizzinato, che possedeva un profilo sociale simile, e che in effetti si avvalse di Agostini come segretario all’organizzazione.
Questa congiuntura era però destinata a cambiare. L’evidente difficoltà della Cgil di quegli anni di mantenere la sua forza ed influenza si tradusse nel cambio della guardia a livello nazionale, che trascinò con sé anche quello locale (e lo stesso ridimensionamento di Agostini). Segretario generale, con il compito di rimettere in carreggiata la Confederazione, divenne – come è ben noto – Bruno Trentin, il quale proveniva da un’altra storia ed esibiva un profilo del tutto dissimile: leader carismatico per diversi anni e a cavallo dell’Autunno caldo dei metalmeccanici, ma anche intellettuale raffinato nella formazione e nelle sue elaborazioni che avevano decodificato il ‘neo-capitalismo’.
Si apre così (nel 1988) un altro ciclo politico-sindacale, che riporterà in auge il movimento sindacale negli anni successivi, grazie al decollo della concertazione, e grazie anche al (imprevisto) venir meno della presenza incombente dei grandi partiti del vecchio sistema politico.
Il quadro sociale, italiano e veneto, era attraversato da forti venti di novità e l’operaio fordista non era più la figura egemone. Ma la Cgil si cimentò con forti avvicendamenti dei suoi dirigenti, che investirono anche il Veneto e quel gruppo di sindacalisti così attenti alla nuova composizione del lavoro operaio.
Questo spiega la rapida parabola di Donazzon, lungamente tratteggiata nel volume, il quale dentro questa virata è condannato ad essere sostituito, a poco tempo di distanza dall’elezione quasi unanime a segretario generale della Cgil veneta.
Quella dei nostri due autori è una storia viva, ma anche una sorta di controstoria. Essa dà spazio a figure e posizioni che sono state messe in ombra nell’ufficialità delle ricostruzioni sindacali, figure che sostenevano tesi non ortodosse, le quali sono state largamente rimosse dalla vulgata prevalente.
Ma in sostanza, e a distanza di tanto tempo, quale bilancio si può trarre? anche per valutare più correttamente le ragioni di chi ha perso quella contesa.
Nelle letture standard l’approccio ed il contributo di Trentin vengono abitualmente considerati di ‘sinistra’ o comunque ‘più’ a sinistra. Eppure a ben guardare la sostanza della sua azione, da segretario generale della Cgil si è mossa in direzione di una sorta di ‘ricentraggio’, orientato a catturare la nuova morfologia, e le nuove varianti, anche soggettive ( ed addirittura ‘personali’) del lavoro. In questo senso va l’idea di collocare i ‘diritti’, che prendono il posto della ‘classe’, come emblema e come fattore unificante del nuovo corso, in modo da parlare a lavoratori divenuti più differenziati ed esigenti. Insomma un potenziamento della portata universalistica della vocazione generalista del principale sindacato italiano. Un potenziamento in due direzioni, che rendono di respiro ampio l’operazione: l’estensione verso tutti i gruppi e interessi rientranti nell’orbita del lavoro; la portata in ragione della predisposizione a cogliere anche la domanda di potenziamento soggettivo proveniente dai lavoratori.
Se guardiamo invece l’altro punto di vista, quello del gruppo di famiglia veneto, esso si connota piuttosto per essere ‘neo-operaista’, o se volete, ragionando su scala più larga, ‘neo-classista’.
Dalla sua questa chiave di lettura può vantare una maggiore vicinanza ai cambiamenti nella composizione demografica molecolare del lavoro. Esso riesce a tematizzare il passaggio incalzante e non reversibile dall’operaio-massa all’operaio socialmente diffuso e sparpagliato della piccola impresa.
In altri termini il vantaggio di questa ottica consisteva – o poteva consistere – nella più forte immersione nella realtà sociale e nelle nuove contraddizioni del lavoro (operaio): cosa permetteva di immaginare un programma di insediamento più strutturato.
Dal canto suo l’altro orientamento guardava i processi sociali più dall’alto, ed in una declinazione intenzionalmente e simbolicamente più larga e generalista.
Esso era destinato però al successo grazie alla presenza di alcune condizioni favorevoli, che si aggiungevano al ruolo autorevole riconosciuto di Trentin: una fase di passaggio economica e politica altamente drammatica che richiedeva a tutti gli attori un forte riposizionamento; la scomparsa del Pci (ed anche del Psi), che imponeva al sindacato una trasfigurazione per salvarlo dalla possibilità di essere travolto dalla caduta dei partiti di massa.
In realtà se utilizziamo il senno di poi potremmo azzardare che si trattava di progetti entrambi incompiuti, che avrebbero avuto bisogno l’uno dell’altro per completarsi pienamente e rafforzare l’efficacia dell’azione sindacale.
Quello di Trentin, diventato poi la lingua ufficiale della Cgil dell’ultimo trentennio, scontava la perdita di contatto e dunque di rappresentanza con un pezzo del cambiamento sociale che continuava implacabilmente ad erodere la precedente fotografia del lavoro. Questo spiega la distanza, che non è stata colmata, del sindacato dalla nuova working class, tanto industriale che terziaria.
L’altro progetto necessitava di un respiro più largo, e per evitare di essere confinato in un perimetro sociale troppo settoriale, avrebbe dovuto misurarsi appieno con il passaggio post-industriale delle economie avanzate.
Insomma una storia di ricchezza fortemente plurale della discussione sindacale e della sua voglia di sintonizzarsi appieno con il mondo dei ‘lavori’ che emergeva e tendeva a dominare: una storia di cui i sindacati oggi hanno ancora più bisogno.
Mimmo Carrieri