E così i sindacati confederali sono tornati dopo 6 anni a mobilitarsi unitariamente, in una dei luoghi-simbolo delle lotte operaie e della sinistra di un tempo, piazza San Giovanni a Roma. Un avvenimento che è coinciso con l’arrivo di Maurizio Landini alla leadership della Cgil, mentre altri cambi sono annunciati nella Uil e nella Cisl.
I sindacati sembrano, quindi, tentare la strada di una nuova stagione di mobilitazione e di rinnovamento al vertice: ma basterà per rilanciare delle organizzazioni burocratizzate e in deficit di idee, programmi e rappresentatività o si tratta di un fuoco di paglia?
E’ evidente il deficit di influenza del sindacalismo italiano nel sistema istituzionale, nella crisi più generale di quello internazionale vulnerato dai processi di globalizzazione che trapassano i confini nazionali nei quali storicamente si è radicata l’azione collettiva di rappresentanza dei lavoratori, producendo nuove diseguaglianze e una diversa articolazione del conflitto sociale.
Infatti, nella società industriale il luogo dello scontro sociale era fondamentalmente la fabbrica ed attraverso il conflitto la classe operaia e quella imprenditoriale si contendevano la distribuzione del reddito; oggi, nell’economia 4.0, la posta in gioco è la verticalizzazione delle differenze, tra chi è in cima alla scala sociale e chi, la grande maggioranza, è sotto. Ed è per questo motivo che i nuovi conflitti sociali saltano le tradizionali forme di rappresentanza politica e sindacale, tutte ritenute appartenenti alla più generale “casta” di potere, come testimonia il fiume in piena dei “gilet gialli” in Francia.
La crisi della rappresentanza ha investito anche il nostro Paese e per quanto riguarda il sindacato è esemplificata da un dato, simbolico e concreto al tempo stesso: la manovra economica del governo in carica, per la prima volta dal 1966, anno in cui furono varati i primi incontri triangolari, governo, imprenditori e sindacati, sulla programmazione economica voluta dal centro-sinistra, non è stata oggetto di confronto, neppure formale, con le tre confederazioni sindacali e le altre organizzazioni degli interessi collettivi.
Certo, non sono i tempi in cui il potere sindacale, nato sull’onda dell’”Autunno caldo” nel 1969, poteva far cadere, anche solo con l’annuncio di uno sciopero generale (come accade al governo Rumor nel luglio del 1970), un esecutivo e neppure gli anni nei quali la mobilitazione delle piazze guidate da leaders carismatici come Lama, Carniti, Benvenuto, Trentin che teorizzavano e praticavano concretamente il modello del sindacato “soggetto politico” nel pluralismo culturale e politico delle rispettive organizzazioni sindacali, imponeva per tutto il decennio Settanta e per larga parte di quello successivo, prima del “Decreto di San Valentino” nel 1984, a governi e parlamenti di discutere con i rappresentanti del mondo del lavoro la politica economica nazionale, né la concertazione e il neocorporativismo “all’italiana”, che negli anni ’90 del secolo trascorso ha consentito la tenuta del sistema economico e sociale del Paese.
Ciò che appare evidente è la perdita di ruolo del sindacalismo italiano a livello istituzionale sui grandi temi dell’economia, inverando l’analisi che un grande sociologo del lavoro come Aris Accornero, recentemente scomparso, già nel 1992 aveva compiuto, descrivendo la “parabola del sindacato”.
Un sindacato ripiegato in un rapporto corporativistico con le “storiche” associazione datoriali, Confindustria in primo luogo, in una sorta di cittadella chiusa, sempre più piccola e assediata da nuove forme di sindacalismo autonomo e di base e da organizzazioni datoriali espressive del nuovo sistema produttivo reticolare in profonda trasformazione, alle prese con una crescente burocratizzazione, con i giochi di potere interni e con leadership incolori, nell’ambito di un elevato pluralismo associativo che ha eroso consensi e rappresentatività, arginato a fatica dai vecchi paletti di un ordinamento intersindacale che impedisce a chi ne è fuori di esercitare legittimamente diritti sindacali e funzioni di contrattazione collettiva. Tema, quest’ultimo, che abbisogna ormai, senza remore, di un intervento legislativo regolativo, rispettoso dei principi e delle previsioni dell’art. 39 della Costituzione, letti in chiave evolutiva secondo l’insegnamento del diritto vivente, per riscrivere e aggiornare relazioni industriali che mostrano evidenti segni di logoramento.
E’ evidente l’esigenza di una nuova elaborazione programmatica e di mobilitazione sociale dei sindacati, memore di grandi proposte del passato. Si pensi al “Piano del Lavoro” proposto nel 1950 dalla Cgil guidata da Giuseppe Di Vittorio, segnato da forti influenze del “New Deal” rooseweltiano, per una politica di investimenti in opere pubbliche e infrastrutture, in grado di stimolare la domanda e generare occupazione specie nel Mezzogiorno, crescita economica, incrementi salariali, nell’ambito di una reale democrazia nell’economia.
Un dato è certo: la democrazia vive di partecipazione politica e sociale e il sindacato è elemento costitutivo; c’è bisogno di un suo rilancio di idee, di proposte, di nuovi gruppi dirigenti.
G. Maurizio Ballistreri
Professore di diritto del lavoro nell’Università di Messina