Le idee camminano con le gambe degli uomini” è una frase che ripeteva Pietro Nenni. Ed in periodi nei quali domina l’incertezza questo tipo di azione è quanto mai necessaria. E’ lo spirito con il quale si è effettuato lo sciopero generale del 16 dicembre: non solo dare rappresentanza ad u reale disagio sociale, ma riaprire confronti su problemi fondamentali come il fisco, il lavoro, il welfare che invece sembravano preda di una sorte già segnata.
E se un auspicio va fatto guardando al 2022, è quello che si torni a discutere su progetti e decisioni in grado al tempo stesso di fronteggiare mesi ancora molto difficili – due soli titoli che dovrebbero far riflettere: le mutazioni del virus pandemico e la crisi energetica – e proseguire un percorso di vere riforme evitando di accontentarsi come fanno opportunisticamente alcuni protagonisti politici di mezze riforme.
Ci voleva una scossa sociale, c’è poco da fare. Essa è avvenuta senza il concorso della Cisl ma comunque in una situazione molto diversa dal passato nel quale si sono vissute pesanti stagioni di divisioni sindacali. Ora riprendere un cammino unitario è, rispetto alle divisioni ideologiche dei decenni scorsi, più semplice. Anche perché ci sono state e ci sono forti concordanze su quello che va fatto. Ed è comunque importante in quanto le forze sociali stanno dimostrando di avere una visione più concreta e precisa delle necessità del Paese rispetto a quella che anima la co petizione politica.
Victor Hugo invitava ad osare in tempi difficili: “i vasti orizzonti generano idee complesse, i piccoli orizzonti idee ristrette”. Ed è indubbio che vivere solo di presente come fa oggi la politica prefigura la prosecuzione di muoversi entro piccoli orizzonti nei quali la ricostruzione del Paese correrebbe il rischio di finire fuori della nostra portata.
Si è molto ironizzato sul fatto che uno sciopero generale dovesse interessare più i partiti che il Governo Draghi. Un criterio di giudizio gattopardesco utilizzato con l’intenzione di lasciare le cose come stanno. In realtà la crisi della politica meriterebbe ben altra attenzione, perché si sta manifestando nuovamente in termini allarmanti e non solo per la mediocrità di diversi interpreti.
E’ talmente evidente questa crisi della politica da far assomigliare il recente rapporto del Censis una sorta di breviario di…sinistra. E non tanto per il richiamo ad una società che si rifugia nell’irrazionale per evitare di perdersi nelle mille incertezze che la vita propone, ma per l’affermazione, peraltro condivisibile, che una società si riprende più per “progetto che per evoluzione”, muovendosi in possesso di una visione unitaria dei problemi aperti, ma soprattutto superando “l’afasia del dibattito politico”, espressione elegante per descriverne l’inadeguatezza. A tali considerazioni va aggiunta quella atmosfera di sfiducia che serpeggia nel rapporto e che pare non tener conto neppure della tenuta del Paese sotto il governo Draghi per quanto riguarda la pandemia, né del viatico ai nostri problemi offerto da Bruxelles con le risorse che il PNNR riversa sull’economia.
Ad essere severi dovremmo aggiungere, ma non è il nostro mestiere, che fra le emergenze del Paese andrebbe aggiunta la necessità di una discussione approfondita su una profonda riforma della politica. Un tema assai spinoso ma che almeno potrebbe tener conto di alcuni nodi che possono frenare il passo del Paese come quello di una manifesta incapacità di dialogo con il sociale, dell’opportunismo che genera il consenso della larga maggioranza verso l’attuale Governo, dell’egoismo che mette in cima ad ogni disegno politico contingente la presenza in un sistema tranquillizzante di potere.
L’Italia ha compiuto, malgrado tutto, dei passi in avanti quest’anno e l’iniziativa sindacale non è stata certamente estranea allo sforzo per tornare alla crescita: ad esempio è riemerso il valore dell’industria non solo nell’economia nazionale ma anche rispetto all’indispensabile delle incessanti trasformazioni prodotte dalla rivoluzione tecnologica. Accanto a questa constatazione del rilievo che l’industria ha ed avrà nella crescita economica e che può mettere limiti allo strapotere dei mercati e dei potentati finanziari c’è però il rovescio della medaglia: ancora numerose chiusure di aziende, ancora licenziamenti, molta, troppa precarietà del lavoro, ancora inaccettabili incidenti sul lavoro. E persiste purtroppo anche il fenomeno dei Neet, tanti giovani che non studiano e non lavorano e costituiscono un triste primato italiano nell’Unione Europea.
Si osserva che l’economia ha tenuto ed il Pil ha ripreso a crescere con valori superiori al 6%. Ma non si può dimenticare che dal 2010 al 2019 esso era salito solo dello 0,9%, mentre negli ultimi 30 anni le retribuzioni lorde sono calate del 2,9%, facendo risultare l’Italia come l’unica economia con il segno meno nell’area dell’Ocse.
Ci sono state risposte forti su questo piano? Se guardiamo alle riforme in gioco dobbiamo constatare che c’è moltissimo da chiarire, molto da correggere, non poco da innovare. Sul fisco i primi interventi non si muovono all’interna di una strategia chiara. Anzi appaiono più come una discutibile sovrapposizione sull’esistente, che l’avvio di un processo riformatore di ampio respiro e che tenga realmente conto di lavoratori e di pensionati. Sulle politiche attive del lavoro non si individuano finora grandi segnali di discontinuità rispetto al disastro del mercato del lavoro. Sul Welfare è perfino ardita la scommessa volt ad individuare come andrà realmente a finire.
Gli ultimi dati Istat intanto ci dicono che l’occupazione ha recuperato alcune posizioni quest’anno, ed è un bene, ma lasciando da parte il carico di precarietà non si può trascurare il fatto che questo Paese continua inesorabilmente ad invecchiare con il tasso di natalità più basso nel Vecchio Continente, mentre la qualità del lavoro, la sua organizzazione, le politiche per governare l’evoluzione tecnologica non ricevono ancora input all’altezza della sfida che è di fronte a noi.
Come meravigliarsi allora se una consistente parte degli italiani ritiene che si viveva meglio nel passato? Ma non è questa la spia di un contesto che ha l’esigenza non di spot una tantum ma di scenari concreti di cambiamento? Il sindacato ha un pregio, pur con i suoi limiti: non si consola con logiche pauperistiche, non accetta di vivacchiare in una società assistenziale. Si batte da sempre per cambiare le cose, per agire e contrattare in una società dinamica, per difendere le ragioni dei deboli ma perché è convinto, come del resto recita la Costituzione, che si debba garantire l’eguaglianza delle opportunità.
La pandemia invece ha acuito la questione delle diseguaglianze. Non solo: se l’aumento della inflazione non avrà carattere transitorio come ormai sostengono le Banche centrali e i mercati, e se la fiammata dei prezzi dell’energia e delle materie prime essenziali per le nuove tecnologie proseguirà nel 2022, o saremo in grado di disporre di una strategia efficace che non si riduca a raschiare il barile delle risorse, oppure avremo a che fare con due emergenze assai insidiose. Se questo è vero il primo salto di qualità dovrebbe consistere allora nella capacità di confronti fra Istituzioni, forze politiche e sociali di spessore, di concretezza e con un livello di convinzione assai superiore all’attuale.
Tenendo conto che l’Europa continua a muoversi a fatica nell’intricato scenario internazionale. Ed il mondo continua a mutare ad alta velocità.
Pensiamo per un momento a solo 20 anni fa: gli esperti di politica internazionale si riempivano la bocca con un acronimo che divenne rapidamente famoso, BRIC. Ovvero Brasile, Russia, India, Cina. Un mondo desideroso di capitalismo e di benessere, lasciando da parte antiche ostilità, come nel caso degli Stati Uniti. A venti anni di distanza la Cina lotta per l’egemonia con gli Usa di Biden, Putin incalza l’Europa e civetta con Xi Jinping in funzione antiamericana, India e Cina si guardano di traverso, il Brasile è in mano a… Bolsonaro. E l’Europa? L’Europa politica e quella sociale? Ovvero l’Europa in condizioni di esercitare un ruolo in questa realtà mondiale tanto frammentata e al tempo stesso di garantire crescita economica e civile al suo interno senza le solite furbizie od egoismi?
Siamo davanti ad un’incognita che può condizionare le nostre speranze di risalita. E non è un caso che nei commenti finanziari da qualche tempo se da un lato si sottolinea l’aumentato peso dell’Italia di Draghi nella situazione europea in crisi di leadership, d’altro canto non si esclude che un giorno non lontano potrebbe ritornare il cosiddetto rischio-Paese.
Insomma siamo di fronte a prospettive che se da un lato ci spingono a dare il meglio per consolidare la ripresa economica ma con elementi veri di equità, sena trascurare quella convivenza civile messa a dura prova dalla pandemia, dall’altra ci suggeriscono di non abbassare la guardia. Tutt’altro, va tenuta molto alta e soprattutto il confronto politico e sociale sui temi realmente dirimenti deve mantenere una grande intensità.