di Ida Regalia – Università di Milano e Ires Lombardia
Come appare la Cgil a circa dieci mesi dalla fine del mandato di Sergio Cofferati a un osservatore appassionato di cose sindacali, come chi scrive, che da tanto tempo ha potuto godere del privilegio della vicinanza, ma da una posizione esterna – e un po’ defilata – di autonomia e indipendenza?
Per dare ordine alle molte riflessioni possibili, mi sembra si possa utilizzare quel “risindacalizzare il sindacato” con cui Guglielmo Epifani ha dichiarato la sua strategia per l’organizzazione che dirige in un dibattito recente in casa della sinistra. Ma aggiungendovi, dal canto nostro, alcuni punti di domanda.
Risindacalizzare il sindacato è affermazione impegnativa, che implica assieme un giudizio critico sullo stato attuale dell’organizzazione e un proposito di riforma che mi sembra si possano leggere a due livelli. C’è implicita, in primo luogo, la valutazione che occorra in qualche misura modificare la rotta rispetto al recente passato, riaccentuando la dimensione più propriamente sindacale del ruolo rispetto a quella dell’iniziativa politica. Ma forse ancor più c’è l’idea che occorre ripensare alla grande alla funzione che il sindacato, appunto in quanto sindacato, può o deve svolgere oggi.
Il primo livello si definisce in relazione al passato: un po’ riduttivamente, potrebbe voler soprattutto dire che si vuol tornare a fare il mestiere del sindacato. Ed è forse quello che molti (gli altri sindacati, la Confindustria) si aspettano e auspicano. Il secondo si proietta invece sul futuro: piuttosto ambiziosamente, potrebbe voler dire che il mestiere del sindacato ci si prefigge di aggiornarlo, di reinventarlo. E qui certo la valutazione non può che essere di attesa e verifica alla luce dei fatti.
Ma è tornata a fare il mestiere del sindacato la Cgil negli ultimi mesi? Naturalmente, la prima osservazione è che l’organizzazione non ha mai in realtà smesso di farlo. Chi per ragioni professionali di studio ha occasione di avere contatti frequenti con i sindacalisti, le strutture, i delegati, specie a livello locale, sa che il tessuto c’è; che, anche per quanto riguarda la Cgil, l’attività quotidiana di assistenza e informazione ai lavoratori e di decisione congiunta con le direzioni sulle tematiche di gestione del lavoro in azienda non è affatto venuta meno; che accordi, assieme agli altri sindacati, con le associazioni degli imprenditori e talvolta con le istituzioni su temi importanti – come quelli della formazione professionale, dell’ambiente, dell’inserimento nel mercato del lavoro di immigrati, disabili e altre figure deboli, per citarne alcuni – si sono continuati a fare.
Ma si tratta, per così dire, di ordinaria amministrazione, in genere apprezzata con limitato entusiasmo e fin un po’ svalutata agli occhi dei militanti e degli attivisti del sindacato maggioritario del nostro Paese. Come sappiamo, il punto è invece che, specie nel corso dello scorso anno, l’attenzione e l’iniziativa dotata di senso della Cgil sono state fortemente monopolizzate dall’organizzazione della protesta contro la politica sociale ed economica del Governo; che il risultato in termini di capacità di mobilitazione di lavoratori e cittadini è stato impressionante, superiore alle attese non solo degli altri attori, ma degli stessi organizzatori e dei partiti di opposizione; che è stato messo in moto un processo con alcune delle caratteristiche dei movimenti sociali (una certa tendenza alla radicalizzazione del conflitto, alla definizione di fini non negoziabili) e, come tale, particolarmente difficile da condurre positivamente in porto.
Può darsi che in questo frangente l’attenzione dei responsabili dell’organizzazione ai vari livelli sia stata anche, almeno in parte, distratta dai compiti sindacali ordinari. Ma a ben pensarci il problema aperto più urgente da affrontare per la nuova leadership, nell’ottica di una risindacalizzazione del sindacato nel primo senso indicato, era non tanto quello di proporsi una rivitalizzazione, se necessario, delle funzioni sindacali, ma quello di trovare l’occasione per riprendere il controllo interno e dare sbocco al potenziale di mobilitazione ancora vivo nell’organizzazione: in altri termini, di fare i conti con l’eredità del recente passato.
Paradossalmente, ma non poi così tanto se si tien conto della dinamica dei movimenti, è ciò che il segretario generale ha fatto, o tentato, con la proposta di schierarsi per il sì al referendum sull’estensione dell’articolo 18 dello Statuto alle piccole imprese. Con il voto, che a schiacciante maggioranza ha approvato la proposta, in un sol colpo è stata segnalata la presa di distanza dalla dirigenza precedente – che non aveva mai fatto mistero del disaccordo sul referendum – pur rimanendo nell’alveo da essa segnato, è stata ricompattata l’identità dell’organizzazione nel momento grave in cui si verificava la rottura con gli altri sindacati sul contratto dei metalmeccanici, è stato offerto uno sbocco al forte potenziale di protesta verso il Governo.
Il paradosso, a giudizio di chi scrive, sta nel fatto che la ripresa del consenso interno e la riaffermazione dell’identità, che indubbiamente sono prerequisiti indispensabili per avviare il processo di risindacalizzazione del sindacato, sono avvenute intorno a un obiettivo fortemente simbolico e che si sapeva destinato all’insuccesso, in una sorta di atto eroico estremo.
Ciò che ci si chiede è se la consumazione di questo atto eroico, con il suo duro epilogo di verifica e presa d’atto della realtà, possa essere il punto di partenza per uno spostamento coordinato dell’azione in una direzione più decisamente sindacale.
E l’accento va posto in questo caso sulla dimensione coordinata del riaggiustamento di strategia, in modo da evitare l’alternativa piuttosto verosimile di una frammentazione, o di una sperimentazione in ordine sparso di iniziative volte al mutamento. È indubbio infatti che, a vari livelli, l’organizzazione si muove comunque anche per proprio conto. Il convegno promosso dalla Camera del lavoro di Milano già a gennaio di quest’anno, dal titolo, provocatorio nella sua apparente ovvietà, Autonomia, contrattazione, democrazia, unità: parole del futuro del sindacalismo confederale, ne è un esempio. E chi conosce un po’ la Cgil sa che i dibattiti sui temi più scottanti per il sindacato, il varo di sondaggi, approfondimenti conoscitivi e studi sui modi in cui cambia il lavoro, su che cosa pensano i lavoratori, e simili, quali momenti di elaborazione di nuove idee e corsi d’azione sono piuttosto diffusi – benché dagli esiti pratici incerti, come del resto sempre avviene in politica. Da questo punto di vista, più che quello dell’immobilismo il rischio più probabile potrebbe essere quello di una balcanizzazione dell’iniziativa.
D’altro lato, l’adesione a giugno della Cgil al documento, preparato e firmato assieme da sindacati e Confindustria, sullo sviluppo economico e la competitività in vista della predisposizione del Documento di programmazione economica-finanziaria del Governo, o l’unità con gli altri sindacati in campi importanti quali quello dell’immigrazione, della sanità, delle pensioni, o su specifici aspetti che riguardano la riforma del mercato del lavoro, possono, al contrario, essere indicatori di un’evoluzione coordinata e intenzionale verso una riaccentuazione della funzione sindacale. Ma che dire invece dell’intenzione di effettuare nuovamente uno sciopero generale da soli contro la legge 30? La perplessità non riguarda le molte ragioni per cui il sindacato, e la Cgil in particolare, possa voler contestare il provvedimento del Governo in materia di mercato del lavoro, ma riguarda la scelta di muoversi ancora, un po’ affrettatamente, per proprio conto, anziché cercare pazientemente e con intelligenza l’accordo e una posizione comune con gli altri sindacati – com’è nella logica sindacale, del sindacalismo che cerca per quanto possibile l’unità come prerequisito per l’azione efficace a vantaggio dei rappresentati, alla Di Vittorio.
Certamente, quelli dell’autonomia dagli schemi politici del bipolarismo e dell’unità con le altre organizzazioni sindacali sono i nodi centrali sul terreno del metodo per una strategia di risindacalizzazione del sindacato. Chi scrive è tra quelli che ritengono che da questo punto di vista molto gioverebbe oggi per il nostro sistema di relazioni industriali, una legge leggera ma chiara sulla rappresentatività delle organizzazioni degli interessi. In assenza, ci si augura che il sindacato più grande, che poggia su di una base sociale ampia, in crescita, che spazia lungo un arco assai variegato di collocazioni politiche, riesca responsabilmente a ridefinire in modo nuovo il proprio stile d’azione nei confronti degli altri attori.
Sul terreno dei contenuti, i nodi sono quelli della necessità di ripensare creativamente al modello contrattuale; della centralità nuova che occorre dare alla rappresentanza del lavoro nel terziario e più in generale alla rappresentanza di tutte le forme che il lavoro sta trasversalmente assumendo dentro, attorno e fuori l’impresa; della disponibilità a affrontare il problema della riforma del welfare e delle pensioni; dell’immaginare i modi sindacalmente più efficaci per gestire la complessità che deriva dalla riforma federale dello Stato e dalle tendenze al decentramento.
E c’è naturalmente la questione dei diritti, che sempre più all’interno dell’organizzazione da diritti acquisiti da difendere vengono intesi in senso universalistico, come diritti sociali di cittadinanza da promuovere. Assumere fino in fondo questa prospettiva non può non avere effetti formidabili sul modo di immaginare e realizzare il programma di risindacalizzazione del sindacato.
In questo modo siamo scivolati dal primo senso, più riduttivo, di tale programma di risindacalizzazione come ritorno alla funzione propriamente sindacale, al secondo, quello ambizioso e di alto profilo, di risindacalizzazione come reinvenzione della funzione sindacale. Del resto, è forse difficile immaginare che un’organizzazione complessa, radicata nella società, vitale, come suggeriscono i dati sugli iscritti, quale la Cgil, possa cercare di riaggiustarsi se non innovando almeno in parte i modelli d’azione.
Quanto ciò possa poi aver luogo è legato anche alle strategie degli altri attori.