È davvero tornata, la concertazione? La vorticosa girandola di incontri che si sono svolti questa settimana sotto le regìe (distinte, e a ben vedere anche contrapposte) dei ministri Salvini e Di Maio con nutrite delegazioni di imprenditori, nonché del premier Giuseppe Conte con i sindacati, sembrerebbero confermare questa tesi. E la stessa riapertura della mitica Sala Verde di Palazzo Chigi, tante volte data per morta e invece risorta a nuova vita, è di per sé una immagine decisamente suggestiva. Tuttavia, se al di là dei simboli si prova a verificare concretamente i risultati di questi vertici, il quadro cambia. Al di là delle piccole ripicche tra i due vicepremier, tesi a dimostrare quanto più folta, o di maggior peso, fosse la rappresentanza di imprese da ciascuno ricevuta (15 associazioni da Salvini al Viminale, domenica; tutti i sindacati da Conte, lunedi; ben 33 sigle, come vantato da Di Maio, martedì al Mise), resta che nessun appuntamento è servito a fare passi avanti.
Poco importa che le dichiarazioni dei partecipanti siano state tutte, sia pure con toni diversi, concilianti, quando non addirittura entusiaste, come nel caso delle piccole imprese ricevute da Di Maio. La realtà è che in queste occasioni il governo si è limitato ad ascoltare, anche ‘’prendendo appunti’’, come ha spiegato qualcuno dei partecipanti. A parte che, da un membro del governo, ci si aspetta che i dossier li conosca da prima e che non abbia dunque bisogno di prendere appunti, resta che “ascoltare” non basta a dire che la concertazione è ripartita. Tanto più se poi, su temi delicati, si prendono decisioni evidentemente pochissimo concertate come l’ecotassa, che ha avuto come effetto collaterale quello di indurre i vertici di FCA ad annunciare un immediato ridimensionamento degli investimenti italiani.
Il succo, però, è che al di là delle parate e degli incontri c’è un tema che resta costantemente fuori dai tavoli di confronto e anche dal dibattito politico. Eppure, è un tema cruciale, che possiamo riassumere brutalmente così: in Italia abbiamo stipendi da fame. A ricordarcelo è il Censis, nel suo Rapporto 2018, presentato nei giorni scorsi e di cui si è molto parlato perché lancia la suggestione del ‘’sovranismo psichico’’. Nelle pagine del Rapporto si dice tuttavia anche un’altra cosa assai più concreta: e cioè che tra il 2000 e il 2017 i salari in Italia sono aumentati dieci volte meno che in Francia e Germania. Nel lungo periodo preso in esame, le buste pagano italiane sono aumentate in media di miseri 400 euro all’anno, contro i 5.000 euro di aumento medio della Germania e i 6.000 euro della Francia.
Come è possibile che la terza economia europea, la seconda potenza manifatturiera, nonché il paese più sindacalizzato dell’Unione, risulti poi fanalino di coda per quanto riguarda le retribuzioni? La risposta potrebbe essere: perché la produttività del lavoro italiano è più bassa di dieci volte rispetto a Francia e Germania, peggio di noi c’è solo la Grecia. Il che porta subito a un’altra domanda: perché mai la nostra produttività è così bassa? Cosa si sta facendo per alzarla, come si può intervenire per migliorare su entrambi i fronti? E ancora: che senso ha preoccuparsi per i bassi consumi, o per i giovani impossibilitati a crearsi una famiglia, o per l’aumento della povertà, se non si parte da qui, dalla questione dei bassi salari?
O davvero si pensa di risolvere questo problema erogando un ipotetico reddito di cittadinanza? A questo proposito, vale la pena di ricordare una recentissima frase del presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia. Il quale, osservando come l’entità del reddito di cittadinanza, almeno secondo gli annunci del governo, sia quasi perfettamente sovrapponibile alla prima retribuzione di un giovane che entra nel mondo del lavoro, si è chiesto se questo non rischierà di creare un problema alle imprese: che per battere la ‘’concorrenza’’ del reddito di cittadinanza, dovranno alzare i salari anche solo per “convincere’’ i giovani ad accettare il lavoro. Un fenomeno simile sta accadendo da qualche tempo anche negli Usa, dove molte aziende, a partire da Amazon, stanno alzando di propria iniziativa le retribuzioni, proprio per attirare personale. Ma negli Usa c’è praticamente la piena occupazione, e chi lavora può permettersi ormai di scegliere di andare dove la paga è migliore, rifiutando lavoro mal pagato. Non è la stessa cosa in Italia, dove i posti di lavoro, ci dice l’Istat, calano, e aumentano invece gli inattivi, cioè coloro che il lavoro nemmeno lo cercano. Probabilmente, proprio perché in attesa del promesso Rdc: a parità di valore con una troppo misera busta paga, come stupirsi se qualcuno preferisce lo ‘’stipendio di stato’’?
Partire da qui, da un approfondito ragionamento sui salari e la produttività, sarebbe quindi un perfetto inizio per una nuova concertazione che metta allo stesso tavolo governo, sindacati, imprese (compresi i vari “partiti del Pil”), pronti a unire sforzi e competenze per dare una risposta concreta alla questione salariale. Per un governo che si definisce del ‘’cambiamento’’, questo sì sarebbe un cambiamento vero.
Nunzia Penelope