1. La ripetuta volontà del Governo francese di riformare la disciplina della contrattazione collettiva
Nell’aprile del 2015 il Primo Ministro del Governo francese ha incaricato il Presidente della sezione sociale del Consiglio di Stato (ex Direttore Generale del Ministero del lavoro) Jean-Denis Combrexelle, di redigere un rapporto di analisi e proposte di riforma della contrattazione collettiva in Francia. Costui ha redatto un lungo rapporto (oltre 130 pagine) che è stato presentato nel mese di Ottobre 2015 col titolo «La contrattazione collettiva, il lavoro e l’occupazione». Si tratta di un documento scritto secondo il genere letterario di un Libro Bianco all’esito di un periodo di elaborazione da parte del gruppo di studio, eterogeneo per competenze (giuristi, economisti, dirigenti d’impresa), nonché di un certo numero di audizioni di soggetti collettivi e di altre personalità. Il risultato è un documento nel quale vengono tracciate alcune proposte per riformare il sistema di contrattazione collettiva francese.
Presentando questo rapporto in conferenza stampa (7 settembre u.s.), il Presidente Hollande ha dichiarato che il Governo francese presenterà nei prossimi mesi una proposta di legge di riforma della contrattazione collettiva per facilitare «un migliore adattamento del diritto del lavoro alla realtà delle imprese» (lemonde.fr, 8 settembre 2009). Nella lettera con la quale il Primo Ministro francese Valls dette incarico a Combrexelle di redigere tale rapporto, è chiaramente scritto che il Governo aveva chiesto di valutare “se” e “come” promuovere «l’allargamento dello spazio del contratto collettivo nel diritto del lavoro francese», «in particolare della contrattazione aziendale».
Risale già al 2004 una prima e importante riforma del Codice del Lavoro in materia di contrattazione collettiva che aveva già tracciato la direzione del cambiamento in favore di una rinnovata valorizzazione della contrattazione di ambito aziendale tanto da indurre uno dei maggiori giuristi francesi a parlare di «ri-feudalizzazione» delle relazioni di lavoro riferendosi all’impresa come nuovo feudo (Supiot, La riforma del contratto collettivo in Francia. Riflessioni sulle trasformazioni del diritto, in Giorn. Dir. Lav. Rel. Ind., 2005, p. 106 ss.). Dopo di che, altre riforme si sono succedute nel 2008 e ancora nel 2011 (Peskine, La célébration de l’accord collectif d’entreprise. Quelques enseignements de la loi relative à la sécurisation de l’emploi, in Droit Social, 2014, p. 438 ss.) fino ad arrivare ad oggi, periodo nel quale già si era avanzata una proposta di ulteriore riforma incidente sulle relazioni industriali (Rennes, Dialogue social: les moyen et la fin [à propos du projet de loi dit «relatif au dialogue social et à l’emploi»], in Droit Ouvrier, giugno 2015, p. 348 ss.) alla quale, oggi, potrebbe aggiungersi una nuova proposta governativa ispirata dal Rapporto Combrexelle.
La Francia – ovviamente – non può certo sfuggire al ciclo storico delle c.d. «riforme strutturali» dell’ordine giuridico europeo dei rapporti economici. Peraltro, la natura profondamente “legalista” dell’ordinamento francese provoca spinte alla riforma di tutto il Codice Civile (Alpa, Note sul progetto francese di riforma del diritto dei contratti, in Riv. Crit. Dir. Priv., 2015, p. 177 ss.). Ma è sull’ordine giuridico dei rapporti di lavoro (siano essi individuali o collettivi) che s’incentra sempre l’attenzione più problematica ma anche decisa. Lo testimonia il fatto che recentemente due professori universitari emeriti hanno pubblicato un libello destinato a un vasto pubblico che ha provocato una discussione molto forte (Badinter e Lyon-Caen, La Travail et la Loi, Fayard, 2015). La tesi sostenuta nel libro – e ripresa a piene mani dal Rapporto Combrexelle – è che occorra una profonda e decisa “semplificazione” del diritto del lavoro francese; in particolare, essi rappresentano il diritto del lavoro come una giungla normativa difficilmente conoscibile dagli operatori e perciò destinata alla fatale elusione o inefficacia.
Non è mia intenzione stare qui a discutere la tesi sostenuta in questo libello; mi limito solo a fare due osservazioni. La prima è che il tema è ben noto anche al dibattito pubblico italiano atteso che uno dei decreti legislativi attuativi del Job Act (il n. 81/2015) è intitolato proprio alla semplificazione. Voglio dire che in tutti i Paesi dell’Europa continentale Occidentale uno dei modi per sostenere l’attenuazione dei vincoli normativi posti alle imprese nella gestione del lavoro è la ricerca della “semplificazione”. Semplificare significa – in soldoni – far arretrare la regolazione giuridica legale nel senso di allentare i vincoli oggi posti dalla legge. La semplificazione, però, sovente viene presentata non come una riduzione dello spazio legale statuale bensì come un trasferimento di competenze regolative dalla legge all’autonomia privata. In questo caso, la legge farebbe un passo indietro a favore di un’altra fonte di regolazione, cioè – nel caso che trattiamo – la contrattazione collettiva. Ed è da questa seconda osservazione che vorrei partire per presentare ciò che a me pare la tesi principale del Rapporto Combrexelle.
2. La delegificazione del sistema contrattuale cioè “dalla legge al contratto collettivo”
C’è un passaggio del Rapporto in cui si legge: «la contrattazione collettiva, cioè delegare a parti sociali rappresentative il potere di definire norme giuridiche, in Francia è questione di legittimità. Ciò perché il principio di delega di tal genere non appartiene alla cultura giuridica del nostro Paese». In effetti, l’affermazione potrebbe apparire strana al lettore italiano che, invece, sa bene che l’ordinamento giuridico e la cultura giuslavoristica si sono formati sulla mancata attuazione dell’art. 39 Cost. e con la dottrina dell’ordinamento intersindacale. Così non è per un sistema giuridico a forte vocazione legalista. Qui il Codice del lavoro disciplina la contrattazione collettiva, i soggetti, le procedure di stipulazione, le competenze normative regimentate rispetto alle quali la contrattazione collettiva ha spazi residui. Senza contare che questo è uno dei Paesi nei quali il salario minimo stabilito per legge (SMIC) ha una fortissima influenza sulla contrattazione, al punto che alcuni settori produttivi ormai non contrattano più il salario minimo perché lo SMIC è superiore, e per tutti gli altri settori, la contrattazione avviene solo per certificare, in modo direttamente proporzionale, l’indice di variazione dello SMIC.
Un sistema giuridico così istituito finisce per influenzare anche la prassi negoziale e la cultura politica degli attori sociali: giustamente il Rapporto Combrexelle rimarca che «dare più spazio alla contrattazione, aziendale o di categoria, è una questione di dinamismo dei comportamenti prima che una articolazione di differenti fonti del diritto». Insomma, la maggiore rigidità istituzionale della legge, di una legislazione sulla contrattazione collettiva che puntualmente ne formalizza le competenze regolative (perciò delimitandone l’autonomia), lascia poco spazio all’adattamento della norma giuridica alla specializzazione produttiva che si rappresentata nell’organizzazione aziendale del lavoro. In questo senso dobbiamo leggere l’esortazione a «uscire da una logica puramente giuridica, formale e istituzionale» di regolazione del mercato e del rapporto di lavoro. Il «giuridico», «formale», «istituzionale», in quel contesto nazionale normativo significa «legale», «statuale»; insomma, il problema giuridico sul sistema delle fonti del diritto del lavoro – per come è presentato in questo Rapporto – è un problema di de-legificazione del diritto del lavoro a vantaggio della contrattazione collettiva.
Il problema, però, non è solo giuridico-istituzionale ma anche politico-culturale. Nelle 7 proposte specifiche avanzate nel Rapporto ce ne sono 2 che riguardano la sensibilizzazione delle Parti sociali e la loro formazione adeguata a sostenere una tale rinnovata funzione normativa nonché una sorta di «pedagogia» sulla contrattazione collettiva per farne valorizzare l’importanza proprio nel contesto attuale di concorrenza globale e crisi economica. Allo Stato, invece, non deve più competere la esclusiva funzione normativa (attraverso la Legge) ma, piuttosto, assumere un ruolo politico-economico di attore del sistema di relazioni industriali; un ruolo di garante per la dinamica intersindacale sostenendola attraverso la valorizzazione del dialogo sociale «informale».
Verrebbe da dire che mentre in Italia si tenta di guardare alle altre esperienze europee nelle quali la contrattazione collettiva ha una struttura giuridica a base legale, in Francia si propone di mettere in moto un processo all’inverso, per il quale l’Italia potrebbe essere proprio un riferimento. Infatti, autonomia collettiva, ordinamento intersindacale e funzione di garanzia e mediazione dello Stato appartengono alla storia recente delle relazioni industriali italiane. Se «la domanda non è di stabilire uno schema tipico nel Codice del lavoro ma di riflettere su una nuova architettura assicurando la complementarietà e gli equilibri fra i diversi modi di regolazione», allora davvero l’Italia può rappresentare un modello di riferimento per la Francia.
3. Legge inderogabile e priorità della contrattazione collettiva (aziendale)
Il punto da sottolineare è che il Rapporto Combrexelle propone sì un nuovo equilibrio fra Legge e contrattazione collettiva purché si ponga attenzione ciò che dovrebbe spettare alla Legge e ciò che dovrebbe spettare al contratto collettivo, in particolare al contratto aziendale. Infatti, ciò che si propone è «separare ciò che rileva per l’ordine pubblico dai rinvii alla negoziazione»: alla legge, dunque, spetta solo ciò che costituisce «ordine pubblico». Se in generale l’ordine pubblico è nozione che esprime la regola dell’inderogabilità per tutelare le posizioni di debolezza, nel diritto del lavoro il principio della norma di miglior favore si è sempre intrecciato con un sistema nel quale sussiste la fonte legale e la fonte contrattuale. Il problema della definizione del concetto di «ordine pubblico» nel diritto del lavoro, in Francia, si è complicato nel momento in cui anche in quell’ordinamento giuridico la Legge ha potuto essere derogata dalla contrattazione collettiva nei casi di accordi collettivi c.d. «donnant-donnant» nei quali, ai fini di tutela dell’occupazione si è proceduto a una adattamento del principio d’inderogabilità: in cambio di benefici è consentito concedere peggioramenti.
La legge del 4 maggio 2004 cui ho fatto prima riferimento ha formalizzato il carattere oromai derogabile del contratto collettivo nazionale di settore (o comunque di livello superiore) da parte del contratto di livello inferiore. Per questa ragione, giustamente, nella prefazione a uno studio monografico sul tema abbastanza recente (2007) pubblicato in Francia, si può leggere che «di fronte alla volontà delle parti sociali di “riappropriarsi del dialogo sociale” c’è anche la domanda sui rispettivi ruoli della legge e della contrattazione collettiva, che rimanda, a ben vedere, a quella sull’ordine pubblico nel diritto del lavoro» (Prefazione di Gaudu al libro di Canut, L’ordre public en droit du travail, LGDJ, 2007).
Risuona la stessa questione sollevata sia in Italia dall’abbondante letteratura scientifica italiana sul rapporto fra la legge e la contrattazione collettiva, ma anche a seguito dell’art. 8, legge n. 148/2011, sui contratti di prossimità in deroga per i quali sussite il limite alla deroga posto dalla Costituzione italiana, dalla legislazione dell’Unione Europea, dai Trattati e dalle Convenzioni OIL. Si tratta di una questione che investe da molti anni anche l’Italia e che, al nocciolo della questione, attiene alla definizione di ciò che deve essere considerato inderogabile e indisponibile dall’autonomia privata (anche se collettiva) e ciò che invece può essere derogato.
Peraltro, una volta stabilito un catalogo di diritti fondamentali inderogabili (una sorta di super-diritti), il resto – nella proposta del Rapporto Combrexelle – diventa disponibile nella contrattazione collettiva nazionale e – soprattutto – aziendale. Infatti, fra le proposte c’è la ridefinizione della funzione del contratto nazionale di settore. Perché anche questo livello contrattuale sembra essere destinato a prevedere alcuni diritti minimi di natura contrattuale; tant’è che si propone di ridurre la frammentazione delle aree settoriali nelle quali si stipulano contratti nazionali operando accorpamenti fra i contratti nazionali che riguardano un numero di addetti inferiore a 5.000.
L’approdo di questa proposta di riforma è – com’è facilmente intuibile – valorizzare la contrattazione aziendale attribuendo a questo livello la competenza a disciplinare le «condizioni di lavoro», l’«orario», l’«occupazione» (leggi, mercato del lavoro) e il «salario». Beninteso, si tratta di materie per le quali si propone la derogabilità aziendale proponendo quanto segue: «previa riserva definita dall’ordine pubblico legislativo e contrattuale di categoria, in queste 4 materie l’accordo aziendale si applica con priorità». Il contratto aziendale, dunque, dovrebbe ispirarsi al «contratto prioritario» recentemente istituito in Spagna: un contratto aziendale che ha priorità nella regolazione di alcune materie; e solo in sua assenza si applica la disciplina prevista dal contratto nazionale o dalla legge. D’altronde, come dimostrano alcuni studi recenti, in Francia non mancano esperienze contrattuali di tal genere, soprattutto dopo la seconda riforma del 2008, che mostrano una prassi non sconosciuta (Dirringer, Etude juridique empirique de l’influence de le loi du 20 aout 2008, à propos de quelque accords de droit syndical, in Droit Ouvrier, 2014, p. 459 ss.; Hege, La loi du 20 aout 2008 dans les pratiques des acteurs: une enquete sociologique, in Droit Ouvrier, 2014, p. 465 ss.).
4. Osservazioni conclusive
Viviamo un tempo nel quale molti Paesi europei sono permanentemente impegnati a “riformare” i propri ordinamenti giuridici. La lunga e lenta trasformazione delle economie capitalistiche c.d. mature (soprattutto quelle che hanno esaurito il ciclo storico socialdemocratico) non poteva non richiedere l’adattamento dei sistemi giuridici di regolazione dei rapporti economici. Già altre volte ho avuto occasione anche in questa Rivista di accennare alla comune tendenza verso l’aziendalizzazione del sistema contrattuale (e più in generale del diritto del lavoro) presente nei Paesi europei. Questo Rapporto per il Governo francese non fa altro che confermare questa tendenza. In più c’è da dire che, pur partendo da culture giuridico-istituzionali differenti, al fondo di questa pulsione riformista c’è uno stesso movimento di fondo che connota tutto il diritto del lavoro europeo: buona parte delle questioni poste nel Rapporto sono già oggetto di discussione pubblica in Italia.
C’è poi una seconda considerazione che sorge dalla reiterata e incessante volontà di “riforme” dell’architettura istituzionale del diritto del lavoro che anima quasi tutti i Governi dell’Europa continentale. Di primo acchito stupisce che ogni riforma, una volta approvata, venga presentata come risolutiva rispetto ai problemi denunciati: accadde così in Francia nel 2004, poi nel 2008 e poi ancora nel 2011. Riforme sostanzialmente coerenti perché sempre volte al medesimo obiettivo: attribuire sempre più peso alla contrattazione aziendale. Tuttavia, lo stupore svanisce subito se osserviamo che ciascun intervento di “riforma” – a dispetto dell’enfasi con la quale viene sempre annunciata – è solo un passo verso l’obiettivo, cioè la progressiva riduzione dei vincoli alla disciplina giuridica dei rapporti di lavoro, quali che siano le fonti: al posto della legge (generale, universale e astratta) il contratto collettivo; al posto del contratto collettivo nazionale, il contratto collettivo aziendale; al posto del contratto collettivo (quale che sia) il contratto individuale. Questa è la direzione intrapresa dalle “riforme” dei diritti del lavoro europei, quali che siano le peculiarità nazionali, le condizioni di partenza e le velocità di trasformazione. Il Rapporto Combrexelle, alla fine dei conti, è un tassello di questo comune mosaico europeo.
Vincenzo Bavaro – Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”