Nel 1986 Leonardo Paggi e Massimo D’Angelillo scrivono il saggio “I comunisti italiani e il riformismo”, in cui evidenziano le distanze della cultura riformista nel PCI dagli altri “grandi riformismi europei” sulle questioni economiche e sociali, riconducibili – con le dovute attenuanti storiche e geopolitiche – all’esaltazione dell’austerità, del buongoverno e di un malinteso senso di responsabilità generale. Il saggio si colloca dopo i successi del decennio “sessantottino” (ma anche dopo le crisi energetiche del ’73 e de ‘79) e poco prima della caduta del Muro di Berlino. Eppure, gli autori già identificano con lucidità i limiti endemici del riformismo italiano – comunista e socialista – che “ha finito per condividere gli stessi difetti degli avversari”: liberismo e trasformismo.
In un articolo di Macaluso e Napolitano su l’Unità del 1990 si definivano coerenti col riformismo “un programma e una prospettiva di governo credibili”. Coerenza e credibilità sono virtù importanti, fondamentali per una forza politica di sinistra, se – e solo se – riferiti a una visione di progresso e di sviluppo. E potrebbe non bastare se quella visione non corrisponda a un progetto di potenza e di cambiamento. Di miglioramento, di avanzamento. Coerenza e credibilità non possono certo rappresentare un valore “nel metodo”.
In Italia, l’incontro storico tra liberalismo e movimento operaio (dei lavoratori diremmo più propriamente oggi) ha giovato più al Sindacato che alla Politica. In tutto il secolo scorso, mentre il PSI maturava una cultura dell’intervento pubblico troppo nazionalista, i sindacalisti socialisti concepirono il ruolo economico dello Stato in modo molto più simile a quello delle socialdemocrazie scandinave. Mentre il PCI faceva sua la dottrina liberista, i sindacalisti comunisti riscoprivano l’importanza di una politica di respiro internazionale. Il riformismo in CGIL ha sempre mantenuto vocazione maggioritaria e funzione pedagogica. Al contrario, le istanze più radicali e massimaliste trasferite nel Sindacato hanno sempre svolto una funzione critica – non sempre costruttiva – identificando nel conflitto la ragion d’essere, a prescindere dal contesto e persino dall’oggetto della discussione, fino a dichiarare la propria spinta minoritaria e divisiva. Sergio Cofferati e Gaetano Sateriale in “A ciascuno il suo mestiere” affermano che “se la trattativa (sindacale o politica, ndr.) si trasforma in una specie di agone fra singoli protagonisti che si sfidano, quasi indipendentemente dalla materia del contendere, allora significa che il confronto sta degenerando in qualcos’altro”.
In questo momento storico, i difetti del riformismo italiano sembrano essere comuni a tutte le democrazie europee. Tra l’incudine della stagnazione e il martello dell’euroausterità, le risposte dei partiti socialdemocratici appaiono inadeguate e insufficienti. È ormai chiaro che in tutto il Vecchio Continente – e persino negli USA – si sta diffondendo un’ombra nazionalistica, alimentata proprio dalla ricerca di una risposta alternativa, che sembra non poter provenire dai partiti progressisti. Basti citare l’SPD in Germania, che continua a mediare con la Merkel e a perdere consensi; Hollande e Valls in Francia, che vengono continuamente scavalcati dal Front National, traendo consenso persino dagli iscritti alla CGT; il PSOE spagnolo, che ha perso la metà dei voti in 10 anni; il PASOK greco, che vinse le elezioni nel 2009 e oggi raccoglie il 5% degli elettori; la stessa spinta popolare al BREXIT; la stessa ascesa di Trump negli USA. Idem in Italia. In tutti questi casi, è il populismo e l’antipolitica a colmare il vuoto lasciato dalle sinistre di governo. L’unico tratto condiviso dalla sinistra e dai movimenti nazionalisti è la disintermediazione. Non a caso, Karl Polanyi in “la grande trasformazione” (1944) distingueva la destra liberista dalla “altra via” del nazional-socialismo.
Per questo bisogna rilanciare il grande progetto di pace, di prosperità e di sostenibilità degli Stati Uniti d’Europa; ridefinire il modello di sviluppo economico e sociale del Paese; riattivare un orizzonte di lungo periodo all’insegna del bene comune e delle nuove generazioni; rivitalizzare le istituzioni rafforzando la democrazia.
Oggi più che mai, di fronte alla terza e più imponente crisi del capitalismo, occorre riscoprire la capacità di riformarlo. Keynes nella Teoria generale sostiene che “i difetti più evidenti della società economica nella quale viviamo sono l’incapacità a provvedere un’occupazione piena e la distribuzione arbitraria ed iniqua delle ricchezze e dei redditi”. Riformare il capitalismo è un tema di democrazia economica.
Cosa può fare, allora, il sindacato in questa prospettiva? Rinnovare, prima ancora che innovare, l’analisi, la rappresentanza, l’insediamento, la propria organizzazione e la contrattazione. Comprendendo i processi si possono raccogliere le sfide e tramutare le criticità in occasioni per riportare gli obiettivi sindacali a un orizzonte comune con una politica progressista. In pratica, ciò significa promuovere l’inclusività dei lavoratori parasubordinati e para-autonomi (comprese le Partite IVA individuali e i professionisti), istruire nuove forme di organizzazione della produzione e del lavoro (compreso la smart working), ridefinire i confini dei livelli contrattuali (compresa la concertazione), richiedere momenti di democrazia industriale (compresa la codeterminazione).
Aderire ai processi traduce il riformismo in conformismo. Cercare di bloccare i processi produce al massimo delle illusioni senza senso di colpa. Governare i processi con idealità e progettualità determina risultati d’interesse generale.