Giuseppe Gherzi – vicedirettore Unione Industriale Torino
In un contesto economico globalizzato anche le relazioni industriali assumono una valenza competitiva crescente. Le imprese che operano nell’ambito di sistemi dove la regolazione dei rapporti di lavoro è prevalentemente determinata dagli attori sociali, risultano in notevole vantaggio rispetto a quelle concorrenti che si vedono imporre dallo Stato prassi non condivise e quindi di difficile applicazione.
Le ‘regole del gioco’ divengono, per le imprese impegnate in uno scenario sempre meno circoscritto ai confini nazionali, elementi decisivi per il loro sviluppo e motivo di successo o di perdita di capacità competitiva. Ciò vale anche per l’Europa comunitaria soprattutto alla luce della recente introduzione della moneta unica ed in vista dell’approvazione di regole tendenti a definire modelli di comportamento convergenti.
Il convegno sul futuro delle relazioni industriali promosso dalla Confindustria e dall’Unione industriale di Torino che si terrà i giorni 22 e 23 febbraio a Torino, rappresenta pertanto l’occasione per applicare la regola del benchmarking nei confronti dei modelli in atto nei principali Paesi industrializzati, al fine di acquisire quegli elementi di conoscenza e di riflessione necessari per una revisione ragionata del nostro sistema di regole.
E’ un processo di revisione che coinvolge anche gli altri Paesi europei, dove, nell’ambito di diverse tradizioni culturali e di specifici modelli di relazioni industriali, si stanno cercando gli strumenti necessari per affrontare la sfida sempre più impegnativa che i mercati impongono: quella della competitività. In questo contesto il problema principale che emerge è quello di riuscire a trovare regole capaci di far convivere il necessario governo delle politiche salariali con il contenuto di flessibilità che i mercati richiedono.
La riflessione è aperta in Germania, mentre in altri Paesi, come ad esempio la Spagna, si è giunti ad intese finalizzate a razionalizzare la struttura negoziale, per evitare sovrapposizioni tra materie di competenza dei vari livelli. Il Belgio invece ha adottato una legge con la quale le parti sociali devono fissare il limite massimo degli aumenti della massa salariale sulla base di ciò che avviene nei principali Paesi interlocutori economici, quali l’Olanda, la Francia e la Germania.
L’Europa del lavoro si muove e cerca di equipaggiarsi con strumenti idonei ad affrontare, nel miglior modo possibile, la competizione, con la consapevolezza che, in un regime di cambi fissi, le dinamiche salariali di ogni singolo Paese saranno fattori da tenere in crescente considerazione.
In questo scenario il nostro Paese non può sottrarsi alla necessità di rivedere le ‘regole del gioco’in atto e che si basano tuttora sulla politica dei redditi e sugli assetti contrattuali derivanti dagli accordi del 1992 e del luglio 1993.
Queste regole si sono rivelate fondamentali per l’interesse del Paese, soprattutto nella prima fase della loro applicazione, poiché hanno consentito di raggiungere gli obiettivi macroeconomici allora prefissati quali il rientro dall’inflazione, l’ingresso nell’Unione economica e monetaria ed il risanamento della finanza pubblica. Anche sul fronte del costo del lavoro si sono raggiunti importanti risultati grazie all’adozione dei comportamenti ‘virtuosi’ imposti dal rispetto dei parametri di Maastricht. Per l’Italia infatti è stato possibile mettere sotto controllo, modificandoli in modo sostanziale, i meccanismi di crescita delle retribuzioni e del costo del lavoro. In particolare questo ultimo fattore, che in precedenza presentava dinamiche di crescita doppie o triple rispetto a quelle dei Paesi industrializzati, presenta oggi dinamiche tendenzialmente in linea con i principali concorrenti.
Si osserva peraltro che, pur in presenza di un marcato rallentamento della dinamica retributiva e di costo del lavoro, i recuperi di competitività registrati fino al 1995 sono stati essenzialmente determinati dalla svalutazione del 30-40% della lira rispetto alle altre principali monete.
Se da un lato il modello di relazioni industriali imperniato sul doppio livello di contrattazione (nazionale e aziendale) ha garantito un certo grado di coordinamento delle politiche salariali tra i diversi settori ed ha contrastato il rischio di spirali inflazionistiche attraverso il principio del non automatico recupero dell’inflazione passata, dall’altro non risulta più adeguato alla luce del diverso contesto economico in cui opera, del mercato del lavoro e del livello di produttività espresso dal sistema aziendale.
Lo stesso meccanismo di regolazione dei salari, nel dispiegare compiutamente i suoi effetti, a partire dal 1996, ha immediatamente dimostrato, nell’ambito di un contesto caratterizzato da indici del costo vita molto bassi, la sua propensione a favorire rimbalzi dei salari a livelli doppi rispetto ai tassi di inflazione programmata.
Anche la dinamica del costo del lavoro che ne è conseguita, pur se rallentata rispetto al recente passato, appare ancora eccessiva se rapportata al livello di produttività espresso dal sistema economico. Lo testimonia il costo del lavoro per unità di prodotto che presenta valori evolutivi superiori rispetto a quelli registrati dai più importanti Paesi industrializzati dove, a fronte di analoghe crescite di costo, si hanno incrementi di produttività più elevati ed in grado di assorbire le variazioni dei costi.
Nel solo periodo 1999/2001 la dinamica del costo del lavoro in Italia è risultata di 1 punto superiore a quella dei concorrenti mentre la produttività ha registrato crescite inferiori. Il Clup è aumentato di 5,4 punti nel nostro Paese contro i 3,7 punti in Europa, con conseguenti perdite di competitività.
Il sistema di determinazione del salario in atto ha anche favorito il permanere di una struttura delle retribuzioni relativamente poco articolata, in palese contraddizione con ciò che il mercato globalizzato richiede: una flessibilità di salario capace di adeguarsi ai differenziali di produttività ed ai disequilibri del mercato del lavoro. In Italia si registra invece, rispetto ai Paesi europei, il più elevato egualitarismo salariale a fronte di situazioni fortemente differenziate dal punto di vista del mercato del lavoro, dei tassi di occupazione e della capacità di produrre ricchezza.
Si pone oggi con forza l’obiettivo di definire un sistema di regole che consenta di ottenere una maggiore decentralizzazione della contrattazione, tale da permettere una effettiva redistribuzione dei guadagni di produttività che il sistema in atto ha solo marginalmente permesso. La distinzione dei ruoli dei due livelli di contrattazione è stata importante per potenziare la componente variabile del salario, ma non ha di fatto introdotto modifiche strutturali nei meccanismi di formazione dei differenziali salariali ‘esterni’ , quelli cioè tra imprese, settori ed aree territoriali. Il sistema di contrattazione collettiva ha mantenuto caratteristiche di centralizzazione che si stanno rivelando eccessive ed inadatte ad assicurare quella flessibilità della struttura salariale capace di adeguarsi ai differenziali di produttività e di rispondere in modo positivo ai diversi disequilibri del mercato del lavoro.
Il convegno internazionale fornirà pertanto l’occasione per dibattere il tema e per acquisire gli elementi di novità che in Europa si stanno affacciando in modo da poter utilmente rivedere il nostro modello di relazioni industriali per affrontare al meglio le impegnative sfide che il futuro ci sta preparando.