Il tema della riduzione dell’orario di lavoro appare e scompare nel tempo, quasi come un fiume carsico, sia nel dibattito politico , sia nell’attenzione degli studiosi. Di recente esso sembra rivivere una fase di attualità, anche perché riaffiora nelle linee programmatiche di alcune componenti della maggioranza di governo. A volte esso viene liquidato come una improponibile bizzarria, a volte viene proclamato come semplice e immediata soluzione del problema della disoccupazione. Entrambi questi atteggiamenti sono sbagliati. Esso costituisce un tema reale della politica economica, ma la sua natura è estremamente complessa sia dal punto di vista analitico sia da quella della praticabilità operativa. Merita quindi di essere esplorato e analizzato con molta attenzione con il contributo degli studiosi e degli operatori.
Non c’è dubbio che esso diventerà acuto quando, nel lungo periodo, il tasso di crescita della produzione aggregata non potrà compensare sul piano occupazionale gli effetti del tasso di crescita della produttività. Già Keynes, esortando a prepararsi ad affrontare in futuro un nuovo problema, quello della “disoccupazione tecnologica”, scriveva nel 1930 che nel giro di un centinaio di anni ci si sarebbe dovuti “impegnare a ripartire quanto più diffusamente possibile il lavoro ancora necessario”, essendo “turni di tre ore di lavoro al giorno o quindici ore a settimana” in grado di risolvere il problema, in quanto sufficienti, se svolti da tutta la forza lavoro, a produrre tutta la quantità di beni e servizi necessaria a soddisfare la popolazione. Ma, ammoniva, attenzione: ancora per un centinaio di anni non sarà così.
Ancora non sono passati cento anni, ma le sollecitazioni a convertire almeno parte della crescita della produttività oraria in riduzioni dell’orario di lavoro per neutralizzare gli effetti negativi sull’occupazione si vanno facendo più insistenti. Sia chiaro: esistono oggi ancora ampi margini disponibili per aumentare l’occupazione attraverso la crescita della domanda aggregata, vista la grande diseguaglianza nella distribuzione del reddito e la grande area di bisogni insoddisfatti; tuttavia è giusto incominciare a esplorare questa possibilità. Tra l’altro, giova ricordare che già qualche anno fa l’ex segretario generale della Cisl Pierre Carniti aveva posto proprio la richiesta di riduzione dell’orario di lavoro al centro del suo libro “La Risacca”. Giova pure ricordare che tutti i paesi europei più sviluppati sono caratterizzati da un numero di ore lavorative annue per addetto notevolmente più basso di quello italiano. Ma questa linea operativa è irta di complessità e difficoltà che i semplicistici slogans spesso enfaticamente proclamati non sono capaci nemmeno di sfiorare. Vorrei quindi indicare alcuni dei problemi principali da risolvere in proposito non per scoraggiare la ricerca di soluzioni su questa linea, ma anzi per richiamare la necessità di una riflessione approfondita per risolverli e per poter procedere operativamente in questa direzione. Sarebbe avventato, infatti, adottare provvedimenti in materia senza aver adeguatamente approfondito questi problemi.
Raggrupperei i problemi in tre principali categorie. La prima riguarda come riorganizzare i processi produttivi. Non bisogna illudersi che in caso di riduzione delle ore lavoro necessarie per unità di prodotto sia possibile per l’impresa, a parità di volume di produzione, ridurre proporzionalmente l’orario di lavoro per addetto in modo da lasciare inalterato il numero di addetti. Questo sia perché non esiste una tale elasticità di sostituzione tra i fattori che lo permetta, sia perché esistono discontinuità nei processi produttivi che se ignorate potrebbero scompaginare l’intera organizzazione fino al punto da neutralizzare tutti i guadagni della crescita di produttività. Inoltre, poiché la riduzione dei costi totali dovuta al progresso tecnologico è la risultante di diversi impatti sui costi fissi e sui costi variabili, una riduzione degli orari di lavoro strettamente proporzionale all’incremento della produttività oraria (del lavoro) potrebbe comportare un aumento dei costi unitari totali compromettendo la competitività dell’impresa sul mercato. Esperienze aziendali concrete di riorganizzazione produttiva e rimodulazione di orari in presenza di intense innovazioni tecnologiche costituiscono casi da analizzare accuratamente.
La seconda categoria di problemi riguarda il comportamento dei salari. Ignorando per il momento il problema di cui sopra e ipotizzando una riduzione dell’orario di lavoro proporzionale all’incremento della produttività oraria, il costo del lavoro per unità di prodotto resterebbe costante se il salario rimanesse invariato. Se, al contrario, i lavoratori volessero convertire parte dell’incremento di produttività in incrementi salariali, dovrebbe essere conseguentemente aggiustato il rapporto tra incremento di produttività e riduzione dell’orario di lavoro. E’ importante notare che questa opzione resterebbe sempre praticabile per il singolo lavoratore anche in caso di riduzione generalizzata dell’orario di lavoro; infatti questi potrebbe sempre optare (sulla base della sua funzione di utilità) per svolgere un secondo lavoro o per aumentare gli straordinari, neutralizzando così gli effetti occupazionali della riduzione generalizzata dell’orario di lavoro.
La terza categoria di problemi riguarda il caso in cui una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro venisse estesa per legge a tutta l’economia, mentre i diversi settori registrano diversi tassi di crescita della produttività. Ciò potrebbe provocare (salvo improbabili aggiustamenti salariali) o uscite dal mercato delle imprese con bassi (o zero) incrementi di produttività oppure sensibili variazioni nei prezzi relativi. Correzioni potrebbero essere apportate dal Governo attraverso tassazione, trasferimenti e sussidi, come è stato sperimentato in Svezia a metà degli anni novanta d’intesa con le organizzazioni dei lavoratori.
Molti sono dunque i problemi da affrontare (e che vanno affrontati) nella prospettiva di una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro. Nel frattempo sarebbe opportuno creare spazi per soluzioni graduali, intermedie e sperimentali, anche basate su scelte individuali e contrattazione collettiva. Su questa linea si potrebbe aprire la possibilità di concordare riduzioni marginali dell’orario di lavoro (in certi casi anche con possibili riduzioni della retribuzione) come, per esempio, l’aumento non retribuito dei giorni di ferie, oppure l’ampliamento dei periodi di aspettativa, o l’introduzione di periodi dedicati alla formazione, o la fruizione di anni sabbatici. Un’altra opzione potrebbe essere quella di rivalutare il part time, attualmente relegato a lavori precari, secondari e di bassa qualificazione, rendendolo disponibile anche per scelte volontarie relative anche a mansioni centrali e ben strutturate di alta responsabilità e di alta qualificazione. Ancora, potrebbero essere rese flessibili le modalità del pensionamento, prevedendo una graduale riduzione dell’orario di lavoro dei pensionandi legato al progressivo inserimento di giovani nelle stesse mansioni. Infine, si potrebbero abolire tutte quelle disposizioni e quegli accordi che rendono il lavoro straordinario eccedente il normale orario lavorativo meno costoso del lavoro standard. Insomma si può procedere per passi graduali senza sconvolgere improvvisamente il sistema produttivo.
L’importante è che tutte queste linee di azione siano attentamente studiate e disegnate organicamente come parti di una strategia coerente. Tale strategia composita di misure orientate alla riduzione dell’orario di lavoro richiede tuttavia tre condizioni per risultare efficace e non dannosa per l’economia: in primo luogo un efficiente governo del mercato del lavoro secondo i principi della “flexicurity”, in cui politiche del lavoro, politiche industriali e politiche della formazione continua si integrino; in secondo luogo un miglioramento dell’organizzazione aziendale secondo i principi della “lean production” e dello “smart working” intensificando i processi di innovazione tecnologica; in terzo luogo un adeguato grado di coordinamento internazionale (almeno nell’ambito dell’Unione Europea) sia sul piano della disciplina legislativa del mercato del lavoro sia sul piano del contenuto delle relazioni industriali.
In questa sommaria esposizione di aree problematiche non è compreso il problema dell’aumento del tempo libero conseguente alla riduzione del tempo di lavoro. Dal punto di vista economico ciò potrebbe trasformarsi in nuove occasioni di domanda di beni di consumo per il tempo libero. Ma lo sviluppo delle “capabilities” e delle “first order preferences” è cruciale a questo proposito, anche se non siamo più ai tempi della prima rivoluzione industriale, quando si sosteneva che i lavoratori dovessero essere mantenuti al lavoro il più a lungo possibile, perché altrimenti avrebbero speso il tempo a ubriacarsi nei pubs con grave danno per la loro produttività e per la vita sociale. Il problema tuttavia esiste ed è campo fertile per sociologi e psicologi.
Sebastiano Fadda