Purtroppo la ripresa dell’economia italiana sembra essere già finita. La stima Istat sulla crescita del PIL 2015 a 0,6 ridimensiona qualsiasi ottimismo sull’uscita dalla crisi e crea non pochi problemi alla stessa tenuta dei conti pubblici. Argomento piuttosto rilevante, vista anche la recente dialettica del Governo italiano con la governance europea. Il Governo aveva già scommesso su una crescita dello 0,9% quando ha stilato la Legge di Stabilità 2015 e ricalcolato il Bilancio per quella appena varata. Le stime del MEF, però, si sono dimostrate abbondanti rispetto a tutte le principali previsioni macroeconomiche nazionali e internazionali. Alla luce degli ultimi dati, anch’esse comunque troppo ottimistiche.
Basti citare le previsioni OCSE di oggi sulla crescita italiana nel 2016: +1,0 (il Governo ha stimato +1,6). A tenere giù la crescita è l’incessante crisi di domanda e, in particolare, l’interminabile flessione degli investimenti fissi (che hanno pesato per ben 6 punti su 9 di caduta del PIL dal 2008 al 2014), ma anche una brusca frenata delle esportazioni, dovuta all’improvviso – ancorché prevedibile – peggioramento della congiuntura internazionale. Le cosiddette variabili esogene. Quelle su cui il Governo ha scommesso per ritrovare il segno più e che ora si scoprono essere proprio il fardello che rallenta l’economia nazionale.
Ma perché siamo tutti tanto concentrati sui decimali di variazione del PIL? Innanzitutto, perché dal ritmo di crescita dipende l’effettivo recupero dei livelli di reddito e dell’occupazione pre-crisi. E qui veniamo all’altra maledetta battaglia sui numeri del mercato del lavoro. Istat e Inps producono dati che impegnano tutte le principale testate all’interpretazione delle tendenze occupazionali e, soprattutto, a verificare l’efficacia del Jobs Act e dei connessi sgravi contributivi. Si legge un’enorme varietà di cifre, non sempre riportate con la giusta onestà intellettuale. Basta guardare i titoli: nel 2015 5.408.804 assunzioni; 1.870.959 attivazioni a tempo indeterminato; 764.129 nuovi rapporti; 186.048 aggiuntivi; ecc.
Eppure, l’unico vero dato (Istat) che dovrebbe interessare i cittadini e gli attori economici e sociali del paese è il numero di occupati a tempo indeterminato in più generati nella citata “ripresa”: meno di 80mila. Rispetto al 2007 mancano oltre 700 mila di posti di lavoro “permanenti” (oltre 1 milione e mezzo di unità di lavoro equivalenti a tempo pieno). Anche solo in termini di politica economica, ovvero di costi-benefici, appare altrettanto rilevante che ogni lavoratore a tempo indeterminato in più è costato allo Stato oltre 90 mila euro, considerando 1,9 miliardi di decontribuzione e 5,6 miliardi di deduzione IRAP del costo del lavoro.
Si poteva fare di più. Si poteva fare meglio, magari attraverso nuovi investimenti pubblici, l’unica vera leva che può sollevare la crescita del PIL e recuperare l’occupazione perduta nella crisi. Lo ha detto persino Draghi!