Il sistema delle retribuzioni rischia il corto circuito a causa di un’improvvisa e scomposta intromissione legislativa. Cerchiamo di mettere in fila i diversi problemi. Tra qualche settimana sarà operante il reddito di cittadinanza (RdC) in misura di 780 euro netti mensili, rivolto a persone che dispongono dei requisiti richiesti per quanto riguarda il tenore di vita e la condizione occupazionale. Secondo le simulazioni dell’Istat tra le famiglie beneficiarie, 752 mila vivono nel Mezzogiorno, 333 mila al Nord e 222 mila al Centro. L’analisi della quota delle famiglie beneficiarie sul totale delle famiglie residenti evidenzia come la quota attesa di famiglie beneficiarie del RdC sia pari al 9,0% delle famiglie nel Mezzogiorno, 4,1% al Centro e 2,7% al Nord. I beneficiari del reddito in grado di lavorare saranno presi in carico dai Centri per l’impiego (CpI), che organizzeranno per loro – tramite i navigator – programmi formativi e iniziative di ricerca di un lavoro congruo. E’ riconosciuto al soggetto il diritto di rifiutare due delle tre proposte che gli saranno fatte nel corso di diciotto mesi (rinnovabili dopo una breve pausa) e, in ogni caso, di non accettare un impiego che sia retribuito con meno di 858 euro (il 10% in più del RdC). Ecco, allora, le prime due cifre della telenovela: 780 e 858 euro mensili netti.
Nel frattempo, però, è maturata un’altra idea: quella di un salario minimo stabilito per legge a cui i datori di lavoro privati dovranno attenersi. Alla Camera è depositato fin dall’anno scorso un pdl a prima firma di Graziano Delrio, presidente del gruppo dem; al Senato è stato presentato un ddl sulla stessa materia a prima firma della presidente della Commissione Lavoro Nunzia Catalfo (M5S). Ambedue i progetti individuano una retribuzione oraria minima di 9 euro (lordi nel caso dei cinque stelle; al netto dei contributi previdenziali e assistenziali per i dem). I progetti hanno impostazioni e finalità differenti. Mentre il pdl Delrio prevede un salario minimo orario per tutti i lavoratori che non hanno un contratto collettivo di riferimento e, in questo modo, dà corso a quanto era previsto in una delega non attuata del jobs act, il ddl Catalfo ha un disegno più ambizioso, perché collega il salario minimo direttamente all’articolo 36 della Costituzione, dribblando il convitato di pietra dell’articolo 39.
Recita infatti l’art. 2 : ‘’ Si considera retribuzione complessiva proporzionata e sufficiente ai sensi dell’articolo 1 (che fa riferimento all’articolo 36 Cost., ndr) il trattamento economico complessivo, proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato, non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro,stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro più rappresentative sul piano nazionale (omissis), il cui ambito di applicazione sia maggiormente connesso e obiettivamente vicino in senso qualitativo, anche considerato nel suo complesso, all’attività svolta dai lavoratori anche in maniera prevalente e comunque non inferiore a 9 euro all’ora al lordo degli oneri contributivi e previdenziali’’. In sostanza, con un volo pindarico sul piano giuridico, il ddl pentastellato – prescindendo dall’articolo 39 Cost. – pretende di attribuire efficacia erga omnes ai minimi stabiliti nei contratti collettivi, attraverso l’applicazione dell’articolo 36. In più, stabilisce che il salario orario legale (quindi anche quello contrattuale) non possa essere inferiore a 9 euro lordi.
Ad avviso di chi scrive – se approvato – il disegno Catalfo è destinato a una sanzione di incostituzionalità proprio perché percorre una via diversa da quella prevista dall’articolo 39 per dare efficacia generale ai contratti collettivi. Inoltre, ha la pretesa di risolvere anche il problema della rappresentanza e della rappresentatività in modo apodittico, sia pure con la buona intenzione di tagliare le unghie ai c.d. contratti-pirata. L’articolo 3 dispone, infatti, che ‘’ In presenza di una pluralità di contratti collettivi applicabili ai sensi dell’articolo 2, il trattamento economico complessivo che costituisce retribuzione proporzionata e sufficiente non può essere inferiore a quello previsto per la prestazione di lavoro dedotta in obbligazione dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria stessa, e in ogni caso non inferiore all’importo previsto al comma 1 dell’articolo 2 (i 9 euro, ndr)’’.
Si spiega così perché i sindacati preferiscano il progetto pentastellato a quello del Pd. Il ddl Catalfo li rimette ope legis al centro del sistema, concede la copertura della legge ai contratti da loro sottoscritti insieme ai datori di lavoro e fornisce loro una base di 9 euro all’ora, da cui possono solo salire. Sarebbe – come dice la canzone – ‘’due volte Natale e festa tutto l’anno’’. Oggi il minimo tabellare di un metalmeccanico con inquadramento tra il terzo e il quarto livello è di circa 10-11 euro lordi all’ora. Per altre categorie è di importo inferiore. Facendo una media delle qualifiche operaie si arriva all’incirca sui 9 euro. Secondo l’Istat il salario minimo, con il trattamento previsto, porterebbe in media un incremento di 1.073 euro l’anno per 2,9 milioni di lavoratori, con un costo per le imprese di 3,2 miliardi (ma che secondo l’Inapp supererebbe i 4 miliardi).
Riassumendo: i soggetti che ne hanno i requisiti previsti possono ottenere il RdC pari a 780 euro mensili, diventano creditori di misure di politiche attive e possono rifiutare offerte di lavoro inferiori a 858 euro. Non si capisce come questo importo si concili con i 9 euro del salario minimo legale, ma ce ne faremo una ragione. Certo, i sindacati giustamente lamentano che si tratta solo di minimi retributivi, mentre i contratti prevedono anche un complesso e importante contenuto normativo, che non sarebbe garantito dalle misure in discussione. Ma non si può volere tutto dalla vita. Il divano su cui stare seduti è già occupato dai percettori del RdC. I sindacati, se vogliono, devono cercarsene un altro.
Giuliano Cazzola