Sembrava proprio che la Buona scuola li avesse gratificati, ma i presidi sono pieni di problemi e mercoledì 25 porteranno il loro malcontento in piazza. Vogliono guadagnare come gli altri dirigenti pubblici, vogliono strumenti che permettano loro di lavorare al meglio, vogliono liberarsi dei mille impegni burocratici che il ministero gli attribuisce. Giorgio Rembado, il presidente dell’Associazione nazionale presidi, espone i motivi della protesta.
Rembado, i presidi scendono in piazza?
Sì, non siamo abituati a queste manifestazioni, ma dopodomani, il 25 maggio, saremo in due piazze a Roma a manifestare la nostra protesta.
Quali piazze e perché in due?
E’ presto detto. Le piazze sono quelle di San Cosimato, in Trastevere, a due passi dal ministero dell’Istruzione, e quella di Montecitorio, a ridosso della Camera dei deputati. Vogliamo portare il nostro malcontento alla responsabile del nostro settore, la ministra Valeria Fedeli, e al Parlamento, dove si fanno le leggi che regolano il settore dell’istruzione.
Ma contro cosa protestate?
Abbiamo tre motivi di malcontento. Il primo, il più importante, attiene all’esigenza di perequare le retribuzioni dei presidi a quelle degli altri dirigenti pubblici. Capiamo che questo è un periodo di vacche magre, molto magre, ma i presidi sono diventati dirigenti pubblici dal 2000 e da allora guadagnano quasi la metà dei dirigenti pubblici.
Non c’è motivo per questa discrasia?
Direi di no, anche perché i presidi, proprio per il lavoro particolare che svolgono, hanno oneri di lavoro e responsabilità molto superiori a quelli degli altri dipendenti ai quali sarebbero uniformati.
I presidi lavorano di più?
Sì, basta pensare che un preside ha sotto di sé in media 152 unità lavorative, un dirigente di un ministero 36. Una sproporzione che parla da sola.
Cosa altro lamentate?
Di non avere spesso gli strumenti gestionali che sarebbero necessari per rispondere alle responsabilità che ci vengono attribuite. Faccio un esempio. La legge della Buona scuola ha attribuito ai presidi la potestà di chiamare a insegnare dei professori che abbiano le competenze necessarie per il lavoro che debbono svolgere. Così i presidi hanno valutato i curricula di tanti professori e hanno scelto quelli che potevano rispondere alle esigenze esistenti. Poi però il ministero, dopo l’accordo con Cgil, Cisl e Uil del novembre dello scorso anno, ha dirottato altrove questi professori sulla base delle loro richieste personali, delle esigenze familiari.
Volete il ripristino di questa competenza?
Vorremmo poter contare su queste persone e vorremo anche che si stabilisca che restino nello stesso istituto per tre anni almeno per garantire la necessaria continuità didattica.
Il terzo motivo di protesta?
Vorremmo finissero le molestie burocratiche alle quali sono sottoposti i presidi.
Chi li molesta?
Il ministero, con continue richieste di dati, statistiche, adempimenti di vario genere. Spesso e volentieri ci chiedono cose che il ministero ha già, ma che evidentemente si sono perse nei corridoi. Non è cosa di poco conto, perché troppo lavoro se ne va per questa strada e questo pesa sul rendimento generale del lavoro dei presidi.
Per questo motivi scendete in piazza.
Sì, vogliamo rappresentare, in primo luogo alla ministra responsabile, la nostro protesta. Tanto più adesso che si profila l’avvio della stagione dei rinnovi contrattuali: vorremmo che si disponessero le adeguate misure per rispondere alle nostre richieste.
Voi avete anche dei problemi di organico.
Sì e anche molto pesanti. Mancano, adesso 1.133 capi di istituto e a settembre ne andranno in pensione altri 450. Questo significa che altrettanti presidi, quasi 1.600, saranno costretti a caricarsi dell’onere di sovrintendere all’andamento di altri istituti. Con un aumento parallelo delle loro responsabilità e una parallela caduta dell’efficienza del loro lavoro.
Massimo Mascini