Walter Galbusera
Dalla documentazione pubblicata da ‘Il Diario del Lavoro’ si apprende che il 6 febbraio del corrente anno la Fabbrica d’armi Pietro Beretta S.p.A. ha sottoscritto con i sindacati dei metalmeccanici Fiom Cgil e Fim Cisl ben due accordi nello stesso giorno. Il primo in sede di associazione industriale, di cui lo stesso Beretta, titolare dell’azienda, era all’epoca presidente. Il secondo, ‘integrativo’ del primo, in sede aziendale direttamente con i Sindacati.
Come mai il presidente della seconda associazione industriale d’Italia esclude la sua associazione dalla firma di un contratto aziendale, considerato che i contributi che le aziende pagano alle associazioni servono in buona parte a garantire l’assistenza sindacale? Per capirlo basta leggere i due contratti ‘paralleli’ che, dentro le righe, registrano significative difformità.
Il primo, quello con l’associazione industriali di Brescia, segue i canoni dell’intesa interconfederale del ’93, quella a cui si richiama, qualche volta con toni liturgici, la stessa Confindustria e che i sindacati ritengono tuttora valida.
L’aspetto più rilevante è costituito dal premio di risultato, una forma retributiva variabile connessa a parametri di efficienza e qualità. Da questo punto di vista non c’è molto da dire su quanto definito a livello di associazione Industriali. Ma ecco spuntare subito dopo l’integrazione di quest’ultimo accordo, che anticipa il pagamento dei 2/3 del premio di risultato distribuendolo nell’arco di 12 mesi. Naturalmente salvo conguaglio, sulla cui natura ‘variabile’ è lecito interrogarsi, che verrà effettuato a un anno data. Si ridetermina poi una indennità sostitutiva di mensa, si monetizzano le ore di riposo non utilizzate entro l’anno, si precisano le flessibilità di turno nelle giornate di sabato e lunedì, si conferma un premio EFFE (flessibilità) uguale per tutti a sostegno dell’effettiva applicazione dei criteri di flessibilità, e, dulcis in fundo, si istituisce una quota straordinaria volontaria che i lavoratori non associati al sindacato possono versare, comunicando all’azienda la propria adesione in forma scritta.
Il contenuto di questa intesa ‘integrativa’ non è, agli occhi di un osservatore obiettivo, per nulla sconvolgente. Diventa invece più imbarazzante quando ci si chiede perché, allora, non si sia semplicemente prolungata la riunione all’associazione industriali di Brescia, sottoscrivendo un unico testo.
La risposta è semplice: perché nei rapporti sindacali esistono, in alcune realtà come quella bresciana, un doppio canale e una doppia verità. Questioni di principio che appaiono insuperabili e che vengono sbandierate da industriali del tipo di Beretta come requisiti irrinunciabili della competitività e dell’efficienza aziendale, ma che poi vengono accantonate in nome del realismo aziendalista: veri e propri capolavori di ipocrisia.
Ciò che è grave non è il contenuto dell’accordo ma il fatto che venga nascosto proprio perché nelle sedi ufficiali si sostiene una linea diversa. In questo modo è la qualità delle relazioni industriali che ne subisce un danno irreparabile perché toglie rappresentatività alle parti, siano esse l’associazione industriali o le organizzazioni sindacali. All’interno di queste ultime c’è chi non perde occasione di condannare le cosiddette ‘monetizzazioni’ delle condizioni di lavoro in termini ideologici, così come, in pari misura, si svolgono campagne moralizzatrici contro il finanziamento del Sindacato attraverso quote di servizio e quote di contratto. Quando i comportamenti concreti, troppo spesso, non sono coerenti, generano aree di opportunismo che indeboliscono le relazioni contrattuali riducendole al rango di mediocri espedienti. Se vogliamo davvero fare il salto di qualità è ora per tutti di adeguare le teorie alla pratica, l’immagine al contenuto.
Cordiali saluti.