Aurelio Regina, vicepresidente di Confindustria con delega alle politiche di sviluppo, ritiene che la riconferma di Enrico Letta e del suo esecutivo sia una buona cosa per il paese. Ma, avverte, le cose da fare sono tante, Per uscire a testa alta dalla crisi, spiega al Diario del Lavoro, le soluzioni indicate dal governo sono in parte corrette, ma non sufficienti. Quanto alla politica, e’ ancora troppo inconcludente rispetto alle riforme: tanto piu’ urgenti considerando che la ripresa, quando verra’, non dara’ effetti positivi sull’occupazione.
Cominciamo dalla crisi: quali caratteristiche la rendono ”diversa” da quelle che abbiamo gia’ conosciuto?
La crisi che ha colpito il nostro Paese è senza precedenti. È la più grave dall’Unità d’Italia. Per dare un’idea concreta, solo le due guerre mondiali hanno avuto ripercussioni simili, con la differenza che mentre allora c’era lo spirito che consentì la ricostruzione, oggi non si vede. Il recupero appare debole e fragile, proprio per questo andrebbe sostenuto con opportune misure di carattere economico sulla linea indicata dal Progetto Confindustria per l’Italia. Un programma che intendeva dare una visione di politica economica nell’arco di 5 anni, cioè un’intera legislatura, in grado di incidere su quei fattori che possono favorire il rilancio dell’industria.
Rllancio, lei dice. Ma ci sono realmente possibilità di ripresa? La Confindustria, nell’ultimo rapporto del Csc, sembra piuttosto ottimista, ma l’andamento dei dati economici sembra andare in un’altra direzione.
Le condizioni per la ripresa ci sono. Nel nostro Paese la fiducia tra famiglie e imprese di quasi tutti i settori ha registrato significativi incrementi. I giudizi sugli ordini nel settore manifatturiero sono sui livelli più elevati degli ultimi due anni. .Fuori dall’Italia ci sono segnali di rafforzamento del ciclo. Questo può avere ricadute positive in Italia perché, il contesto internazionale più favorevole aumenta le chance di un rafforzamento dell’economia italiana, trainato principalmente dalla domanda estera. Restano ancora profondi vuoti di domanda (non solo nel nostro paese) e, soprattutto, gravi difficoltà nel mercato del lavoro: il tasso di disoccupazione in Italia ha raggiunto il livello record del 12,2% e quella giovanile ha superato il 40%.
Infatti tutti concordano sul fatto che la ripresa, anche se verrà, sarà senza occupazione. Come si spiega questo evento quasi senza precedenti, una ripresa che non crea lavoro?
Guardi, il ritardo nell’inversione di tendenza nel mercato del lavoro è fisiologico e oggi è prolungato da una serie di fattori. In primo luogo, la creazione di nuovi posti di lavoro sarà frenata dall’ampio bacino di forza lavoro inutilizzata. Sulla base dei dati di contabilità nazionale, il monte ore complessivamente lavorate nel nostro paese è diminuito del 7,8% dal primo trimestre del 2008 al primo del 2013, a fronte di una contrazione e dell’occupazione del 4,8%. Invece che ricorrere solo al taglio degli organici, le imprese hanno diminuito le ore lavorate, facendo un massiccio ricorso alla Cassa Integrazione, ma anche decurtando gli straordinari, smaltendo le ferie arretrate, utilizzando il part-time o altre forme di riduzione temporanea dell’orario di lavoro. Quindi, oltre che dai processi di allungamento degli orari di lavoro e di re-integrazione dei cassintegrati, il riassorbimento della disoccupazione sarà anche rallentato dalla ripresa della crescita della forza lavoro. Con il miglioramento delle condizioni economiche, tornerà a crescere la quota di popolazione in età lavorativa che entra nel mercato del lavoro e questo contribuirà ad alimentare il persistere di un elevato stock di disoccupati.
Le misure messe in campo dal governo Letta sono sufficienti?
Il governo Letta ha introdotto provvedimenti molto importanti: mi riferisco, in particolare, al pagamento dei debiti della PA alle imprese e agli incentivi per la riqualificazione energetica. La questione IMU merita un discorso a sé: noi pensiamo che andrebbe rimodulata nella parte sulle abitazioni principali. Va invece nella giusta direzione la soppressione dell’IMU sugli immobili delle imprese di costruzioni destinati alla vendita ma rimasti invenduti e non locati. In questo senso sorprende la scelta del Governo di concentrare le risorse sull’esenzione dall’IMU di tutte le abitazioni principali. Questo perché, a fronte del costo significativo in termini di risorse pubbliche, l’intervento avvantaggia le famiglie a più elevato reddito con maggiore propensione al risparmio, e quindi è difficile che si traduca in un aumento della domanda interna. Inoltre, non ha alcun effetto sulla competitività del Paese, e anche sotto il profilo dell’equità appare criticabile. Comunque, sarebbe auspicabile un intervento complessivo e di riequilibrio dell’imposizione sugli immobili strumentali delle imprese.
Il taglio del cuneo fiscale davvero servirà a qualcosa, premesso che il taglio di ben 5 punti realizzato da Prodi nel 2007 non si rivelò risolutivo?
E’ sempre difficile valutare l’impatto di tutte le misure di politica economica perché è condizionato da fattori congiunturali che ne confondono gli effetti, come ad esempio il ciclo economico. Tuttavia, a mia memoria, non esistono studi che abbiano calcolato l’effetto di quell’intervento su occupazione, investimenti e crescita. L’elevato cuneo fiscale e contributivo è certamente una zavorra da alleggerire: da una parte riduce il potere d’acquisto dei lavoratori e dall’altra fa lievitare il costo del lavoro riducendo la competitività delle nostre imprese. Il cuneo è in Italia uno dei più alti tra i paesi avanzati, occorre agire perché ha raggiunto livelli insostenibili. Per Confindustria è necessario eliminare il costo del lavoro dalla base imponibile IRAP e tagliare di 11 punti gli oneri sociali che gravano sulle imprese manifatturiere. In ogni caso, l’intervento sul cuneo, per quanto sia ineludibile, non è certamente l’unica misura da affrontare.
Non sarebbe piu’ utile, per esempio, mettere una posta elevata per sostenere la ricerca?
Infatti l’uno non esclude l’altro: il rilancio del Paese richiede di agire simultaneamente su più fronti. Abbiamo proposto la possibilità di utilizzare un credito d’imposta per attività di Ricerca e Innovazione. Questo puo’ costituire un volano per il finanziamento agevolato, utilizzando i fondi rotativi disponibili per investimenti in R&I (quello alimentato con risorse dei ministeri e quello con risorse della CDP) o le risorse del sistema bancario. Il credito d’imposta potenzierebbe inoltre la partecipazione ai programmi di R&I europei (essendo, anche in questo caso, cumulabile) e renderebbe il nostro Paese più attrattivo per investimenti in questo settore.
Domanda secca: meglio tagliare la spesa o aumentare le tasse? Quale delle due strade avrebbe effetti meno negativi sui consumi interni?
Aumentare le tasse non si può, anzi, vanno assolutamente ridotte. L’onere fiscale effettivo sulle imprese italiane ha raggiunto il 68,3% del risultato operativo lordo. I nostri dati hanno confermato l’elevato livello del prelievo nel nostro Paese: la pressione fiscale ha raggiunto il record nel 2013 (44,5% del PIL) e rimarrà molto alta nel 2014 (44,2% del PIL); quella effettiva, escluso il sommerso, supera il 53%. Chi paga le imposte, in sostanza, destina più della metà del prodotto a finanziare servizi pubblici che, tra l’altro, non sono all’altezza degli standard dei paesi in cui il prelievo è inferiore. C’è da dire che la spesa pubblica al netto di interessi e pensioni non è comunque elevata, anzi è tra le più basse d’Europa. Ma, a causa degli elevati interessi sul debito e della grande quantità di risorse destinate alle pensioni, siamo costretti da una parte a ridurre il perimetro delle attività dello Stato e dall’altra non riusciamo a migliorare la qualità dei servizi offerti.
Recentemente, in una intervista al Diario del lavoro, il sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta ha rilanciato l’ipotesi di una tassa di scopo, i cui proventi dovrebbero essere finalizzati a finanziare investimenti per lo sviluppo e il lavoro. Lei cosa ne pensa?
Finirebbe per essere un altro balzello aggiuntivo in mancanza di un vero progetto di politica industriale. Sarebbe auspicabile invece reperire i fondi per finanziare questi investimenti riqualificando l’utilizzo di risorse pubbliche.
Nei giorni scorsi siamo stati sull’orlo di una gravissima crisi di governo. Eppure la Confindustria, come le altre parti sociali, da tempo insiste sui danni che ci porterebbe l’instabilità. Come valuta questi comportamenti della politica che sembrano ignorare gli appelli delle forze produttive?
I politici, sempre più spesso, appaiono ripiegati sugli interessi di partito o di breve periodo, dimenticando che l’unica bussola è il bene del Paese. La crisi attuale è stata più pesante per l’Italia proprio per l’assoluta inconcludenza della politica nel realizzare rapidamente le riforme necessarie. Un’inconcludenza, mi lasci dire, che c’era sia prima che durante la crisi. La mancanza di stabilità, come abbiamo già detto, rischia di gelare sul nascere il lento recupero dell’economia, mentre bisognerebbe fare di tutto per consolidarlo e accelerarlo.
Dalla crisi siamo usciti con la riconferma di Enrico Letta e delle larghe intese. E’ stata una buona soluzione o sarebbe stato meglio ridare la parola agli elettori?
Tornare al voto sarebbe del tutto inutile perché, con questa leggere elettorale, dalle urne non uscirebbe una maggioranza parlamentare più solida e coesa. Quindi saremmo punto e capo. E’ il momento della responsabilità. Le forze politiche devono mettere da parte tutti gli interessi particolari e lavorare per il bene del Paese. E’ in gioco il nostro futuro.
Nunzia Penelope