Sembrava sparita per sempre, ci si lamentava che era troppo bassa, improvvisamente è tornata l’inflazione. All’inizio del mese era già quasi al 6%, non può che crescere con l’incertezza della guerra in Ucraina. Le previsioni più ottimistiche dicono che dovrebbe scendere, che già negli Usa l’anno prossimo dovrebbe tornare al 2%, ma sappiamo quanto possiamo fidarci di queste indicazioni, anche se supportate dalla politica adottata dalla Federal Reserve e, forse, dalla Bce. Il punto è che la corsa dei prezzi è ripresa forte come non eravamo abituati da tanti anni e questo provoca incertezze e difficoltà alle relazioni industriali.
Anche perché la gran parte di questa crescita è dovuta all’impennata dei prezzi delle materie energetiche, aumentati in poco tempo del 50%. Circostanza grave per il mondo del lavoro perché le regole stabilite dalle parti sociali dicono che gli aumenti del costo della vita possono essere recuperati dai contratti nazionali, ma non quelli determinati dalla crescita dei prodotti energetici importati, che è quello che sta accadendo in queste settimane. Questo significa che i salari non potrebbero recuperare la perdita del potere di acquisto subita. I sindacati hanno allora fatto la voce grossa affermando che i prossimi rinnovi contrattuali saranno caratterizzati proprio da una consistente crescita salariale, per recuperare quanto perso per il caro vita, ma in generale per far lievitare i salari italiani, tra i più bassi in Europa.
Gli industriali protestano. Carlo Bonomi, il presidente di Confindustria, ma anche il suo vice, Maurizio Stirpe, hanno fatto presente che i patti sono chiari e vanno rispettati. L’accordo per non calcolare la crescita dei prodotti energetici importati, dicono, era del 2009 ed è stato sempre ribadito, l’ultima volta con il Patto della fabbrica del 2018. L’alternativa, sostengono, è quella di far crescere i salari, ma solo con il rinnovo dei contratti di secondo livello, quelli aziendali o territoriali, dove questi ci sono. Può essere questa la via di uscita? Secondo i sindacati assolutamente no. A loro avviso la distinzione dei diversi modelli contrattuali è precisa: quelli nazionali servono a far recuperare ai salari quanto perso per colpa dell’inflazione, strisciante o impetuosa che sia, quelli di secondo livello a far crescere la produttività, compito difficile, che può essere svolto efficacemente solo all’interno di una fabbrica, di una filiera, forse di un territorio, non al livello di categoria, troppo ampia per poter varare interventi efficienti, tali da far crescere davvero la concorrenzialità della produzione.
Anche perché in questo modo si correrebbe un altro pericolo. Alessandro Genovesi, il segretario generale degli edili della Cgil, lo ha detto con precisione in un’intervista al nostro giornale. Se si cerca di recuperare la perdita del potere di acquisto dei salari con i contratti di secondo livello, afferma, questo comporterebbe una sottovalutazione dell’impegno a far crescere la produttività, che è invece prioritario. Per questo le piattaforme rivendicative che sono state messe a punto in vista dei rinnovi dei contratti nazionali di lavoro di molte categorie prevedono aumenti salariali molto consistenti. Lo ha confermato, sempre al nostro giornale, anche Paolo Pirani, segretario generale della Uiltec, il sindacato Uil di chimici, tessili e lavoratori dell’energia, che non ha esitato nell’affermare che il vertice di Confindustria è un po’ fuori dal mondo quando fa certe affermazioni, troppo perentorie.
Il sindacato non sente ragioni, ma i timori, non solo delle aziende, per le conseguenze di una nuova forte spinta salariale sono forti. Se ne è fatto portavoce il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, che ha ricordato i danni che all’economia italiana portò la rincorsa tra inflazione e salari degli anni settanta, dalla quale ci siamo liberati solo dopo lunghi anni di difficoltà. Le crisi petrolifere degli anni settanta portarono un’impennata dell’inflazione, la scala mobile, che esisteva allora, fece crescere i salari, ma questo aumento provocò solo un altro salto dell’inflazione e via dicendo. Fino a quando ci trovammo con l’inflazione al 20%, col rischio di impattare in una crisi di stampo sudamericano che ci avrebbe rovinati.
Nascono di qui le difficoltà e le paure di queste settimane che angustiano le relazioni industriali. Anche perché è vero che i sindacati possono riuscire a strappare aumenti salariali consistenti con i rinnovi contrattuali a dispetto di quanto afferma Confindustria, perché le categorie guardano più da vicino ai loro interessi e potrebbero accedere a soluzioni contrattuali vicine a quelle sollecitate dai sindacati, ma a tutto danno di una linearità delle relazioni industriali a tratto nazionale: si avrebbe una dispersione di strategie che non potrebbero che danneggiare l’esito finale.
E’ per questo che la soluzione migliore non potrebbe che essere quella di un grande patto che consenta alle parti sociali, a tratto però nazionale, quindi al livello di confederazioni, di dettare nuove regole che tengano conto delle difficoltà che sono emerse. Il segretario generale della Uil ha già detto che ormai il Patto della fabbrica non esiste più e sarebbe necessario ricontrattarlo. Non ha trovato molti consensi, Stirpe gli ha fatto subito notare che le conseguenze potrebbero essere molto forti e soprattutto sono difficili da prevedere. Ma è indubbio che in questa situazione la soluzione migliore sarebbe quella di un nuovo patto sociale, che sia tra produttori o anche con il governo. Obiettivo però difficile da raggiungere perché la situazione politica e anche il dialogo tra i vertici confederali sembrano troppo slabbrati per credere che si possa davvero mettere da parte le divergenze e stabilire nuove regole contrattuali. Bisognerebbe saper ritrovare lo spirito dei primi anni 90, quando si decise di far partire la concertazione, che significava collaborare, tutti assieme, forze sociali e politiche, per mettere a punto una politica economica, meglio una politica industriale in grado di collocare la produzione del nostro paese in una gamma alta della catena del valore. Era la scommessa che era stata di Jacques Delors, per la società della conoscenza, della ricerca, che evitasse una volta per tutte di cercare la competitività nella riduzione del costo del lavoro. Obiettivi alti, che non dovremmo mai dimenticare.
Massimo Mascini