Giorgio Ambrogioni sottolinea, nella sua intervista, come questo momento di trasformazione imposto dalla crisi economica costituisca anche un’occasione importante per i manager italiani. Concordo sul fatto che siano in corso cambiamenti importanti, peraltro non sempre facili da decifrare e anche di diverso segno. La cultura di management sta evolvendo rapidamente, sotto la spinta di stimoli molto forti che riflettono però anche disordine, contrasto di idee e conflitti di interessi.
Proprio per questo diventa cruciale proporre in ambiti sempre più allargati momenti di riflessione, di dibattito e di elaborazione di cultura manageriale.
Per contribuire in questo senso, propongo tre temi che si riallacciano alle considerazioni di Ambrogioni.
Innanzitutto è importante mettere in rapporto la figura del manager con l’impresa, considerata come un asset della società e del territorio e non come possesso di pochi.
Il fenomeno azienda sta stretto nei vestiti standardizzati disegnati e proposti dalla scienza economica, o da quella giuridica. Una semplice combinazione di fattori produttivi, riducibile a una formula matematica, oppure un mero insieme di contratti, intestati ai diversi soggetti che intrattengono scambi e transazioni, sono modi molto poveri e limitativi di rappresentare quelli che sono i soggetti fondamentali dell’economia e della società di oggi. Negli anni scorsi, mentre gli economisti e i giuristi discutevano di astratte formule di governance, pochi si accorgevano dei processi di intensa ristrutturazione che hanno portato un folto gruppo di imprese italiane di media dimensione a dare un contributo fondamentale per il recupero di competitività del paese, per la tenuta delle esportazioni, per il mantenimento di un ruolo centrale dell’industria nell’economia italiana. Questa realtà dell’impresa dinamica e in evoluzione grazie al contributo di molteplici ruoli e professionalità è poco conosciuta e studiata. L’immagine pubblica dell’impresa è troppo piatta e alla fine l’attenzione si concentra su pochi personaggi che animano la scena, gli imprenditori e i grandi manager che stanno sotto i riflettori. In questo modo tutto si riduce a una “storia di furfanti e di eroi”. E in tempi di crisi l’alone di sfiducia si diffonde sull’intera categoria dei dirigenti. Sono modi che contrastano con la ricchezza, la vivacità, la poliedricità delle testimonianze che i protagonisti della vita aziendale, nei vari campi, possono offrirci. Occorre comunicare e fare capire meglio la realtà del lavoro dei manager, a livello diffuso, il suo radicamento nel tessuto di un sistema di imprese come quello italiano che anche in tempi di crisi mantiene e sviluppa la sua vitalità. Si tratta senza dubbio di una risorsa essenziale per la competitività del paese.
E’ anche tempo di uscire dai complessi di inferiorità rispetto ai modelli del management anglosassone. Molti commentatori scoprono ora che taluni “ritardi” italiani si rivelano paradossalmente vantaggi di fronte alla crisi; persino la predominanza della piccola dimensione viene rivalutata. Se si comincia a riconoscere la necessità di correzioni di rotta rispetto a un capitalismo manageriale troppo improntato alla dottrina dello shareholder value occorre prendere atto che non servono solo misure normative, controlli più stringenti, e neppure basta la sostituzione di chi ha compiuto gravi errori. La prospettiva più interessante consiste forse nell’apertura a un vero pluralismo dei modelli d’impresa e di management.
Il panorama italiano continua infatti ad essere segnato da una assai pronunciata varietà di situazioni e di assetti aziendali, che testimonia anche la persistenza e rilevanza di un pluralismo di concezioni. Ora si comincia a capire che una società e un’economia fluide e complesse richiedono un’ampia generazione di alternative, una diffusione della possibilità di esercitare delle scelte, per tutti i soggetti coinvolti, non solo azionisti e top manager, ma anche personale, clienti, fornitori, istituti finanziari.
Come rileva anche Ambrogioni, l’economia italiana esprime la sua piena originalità attraverso le medie imprese del “quarto capitalismo”, fortemente internazionalizzate e capaci di dominare mercati di nicchia a livello globale. Si tratta in prevalenza di aziende a stretto controllo familiare attuato anche attraverso architetture finanziarie che assicurano le posizioni chiave a membri della famiglia. Ma queste strutture sanno fare leva sulle risorse dei territori, attraverso relazioni personalizzate e fiduciarie con banche, associazionismo imprenditoriale, enti locali. Restringendo l’attenzione soltanto al mondo del cosiddetto family business , delle imprese a controllo familiare, troviamo però, una accanto all’altra, imprese a totale controllo familiare e altre quotate in borsa; aziende rette da imprenditori di prima, seconda, o successive generazioni; di piccole, medie, grandi dimensioni; con o senza inserimento di manager professionali, fortemente o poco internazionalizzate, radicate o no nel territorio, ecc. Si ritrovano anche assetti aziendali che seguono lo schema di impresa-comunità, o di impresa conviviale, che assomigliano alla famiglia, a un nucleo della società, a un mondo vitale.
Tutto questo offre ai diversi soggetti l’opportunità di aderire a proposte alternative di assetto d’impresa; operando una scelta nel proprio specifico ambito. Di fatto questo è sempre avvenuto, ma la teoria ha spesso interpretato riduttivamente la rilevanza di queste scelte.
In passato la diversità dal modello dominante del management anglosassone, è stata vissuta con senso di colpa, con la sensazione di non essersi adeguati al benchmark imperante. Più in generale è mancata forse la capacità degli stessi protagonisti del nostro sistema di imprese di avere piena coscienza del valore della propria esperienza e quindi di trasmetterne e propagarne le qualità. Così le punte avanzate hanno stentato a divenire punti di riferimento per i comportamenti di un gruppo più ampio di soggetti, di porsi pienamente come classe dirigente, di fare sistema e fare scuola.
Ma se l’evoluzione del sistema globale apre spazi alla diversità, al pensiero creativo e all’abilità imprenditoriale, vi è un potenziale importante che le nostre imprese possono sviluppare, a partire dalle posizioni raggiunte. Nel nuovo scenario l’Europa continentale e la stessa Italia cessano di trovarsi additate come “in ritardo” e divengono anzi nuovi riferimenti per i modelli d’impresa.
Si scopre ora che i tanti mondi vitali di cui è fatto il mondo globale attuale sono interdipendenti, simili e differenti al tempo stesso. Solo un approccio aperto al pluralismo, capace di ascolto, riflessivo consente di trarre vantaggio dall’immersione nella diversità.
Vi è chi coglie in questo l’avvento di una società imprenditoriale , un’evoluzione che non è priva di implicazioni anche per i dirigenti. In questo tipo di società la gestione dell’organizzazione e delle risorse umane in ottica di flessibilità e di cambiamento diviene risorsa e competenza critica. Nuove opportunità si aprono per le persone capaci nel passaggio dalla società manageriale, dominata dalle grandi organizzazioni, a quella imprenditoriale dove l’organizzazione resta fondamentale ma si articola in forme molto più plurali: individui, aziende, comunità, università, centri di ricerca, sono i soggetti coinvolti in una rete di rapporti che produce nuova conoscenza e la applica in progetti aziendali e imprenditoriali.
Si arriva infatti ad affermare la rilevanza di quel riorientamento culturale verso un ruolo del dirigente meno definito da specializzazioni tecniche e più aperto a una visione completa dell’azienda e all’attenzione verso la società esterna, di cui parla anche Ambrogioni. Non si tratta di cadere in un nuovo “generalismo” del management, avulso dal contesto. Al contrario. L’ipotesi di lavoro che si potrebbe proporre mette in rilievo l’importanza di figure emergenti nell’impresa italiana: si tratta di manager dotati di mentalità imprenditoriale, capaci di gestire aziende e organizzazioni in modo professionale, evitando però l’applicazione di ricette predefinite e ricercando l’originalità e l’innovazione, a tutti i livelli.
Queste figure esistono, anche se sono ancora poco conosciute e riconosciute. Possiamo forse chiamarli manager imprenditoriali, professionisti capaci di superare i limiti di un approccio troppo centrato su se stessi e sulla propria carriera, di chi tende a concentrarsi su tecniche e strumenti ed è portato a vedere tutte le aziende nello stesso modo.
Invece, i manager imprenditoriali:
sono radicati in un’impresa specifica, senza appiattirsi su di essa;
lavorano con la “testa” e con il “cuore”
sviluppano senso di appartenenza, governano l’integrazione delle diverse risorse
hanno capacità di sintesi, generano apprendimento attraverso la dialettica tra strategia e operatività, collaborazione e competizione, routine e innovazione, creatività ed efficienza.
Figure di questo tipo sono utili e richieste nei più diversi contesti aziendali, di piccola, media e grande impresa.
Quello indicato rappresenta per ora solo un modello possibile, forse è un modello emergente che comincia ad affermarsi e diffondersi. Secondo l’ipotesi di lavoro proposta esso è indotto da dati di realtà ma non in modo meccanico e deterministico, e la sua adozione è mediata dalle propensioni personali dei soggetti. Ma affinché questo modello emerga completamente e si affermi in modo più chiaro e netto, occorre una maggiore elaborazione, una maggiore capacità di orientamento, comunicazione e diffusione. Tutto questo per il momento è abbastanza assente. La caratterizzazione originale e imprenditoriale è segnata anche dall’individualismo, dalla centralità del percorso personale. Del resto, essere originali ha un prezzo, anche la propria formazione deve essere segnata da un’impronta, da uno sforzo di ricerca personale. Non si possono “clonare” manager di questo tipo attraverso schemi predefiniti.
Sarà importante, peraltro, rafforzare la capacità di elaborazione e concettualizzazione delle esperienze manageriali, risalendo dal livello individuale verso ambiti organizzati che consentano la diffusione e la proposta di concetti innovativi, in una logica di apprendimento attivo e personalizzato, incentrato sulla riflessione e sul confronto critico con le diverse esperienze. Questo è un compito che coinvolge molti soggetti, i manager interessati innanzitutto, ma anche i momenti associativi, le agenzie di formazione e ricerca sul management, tutto il sistema dell’istruzione superiore.
di Gianfranco Rebora – Professore ordinario di Organizzazione e gestione delle risorse umane nell’Università Carlo Cattaneo LIUC di Castellanza