Parlare oggi di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro significa affrontare “un discorso olistico”, che tenga conto cioè di diversi fattori strettamente collegati. Una sicurezza che non può prescindere dall’innovazione e della tecnologia, senza tralasciare la dimensione organizzativa e culturale, che ponga al centro il lavoratore e renda le aziende portatrici di un ruolo etico nel tessuto sociale e produttivo. È questo lo scenario tratteggiato dal secondo rapporto dell’Anmil (l’Associazione nazionale lavoratori invalidi e mutilati del lavoro) presentato oggi a Roma presso il Cnel, con la partecipazione dei rappresentanti delle parti sociali.
Il rapporto vede la luce a dieci anni dell’entrata in vigore della legge 81 del 2008, il Testo Unico su salute e sicurezza, coincidenza che ha offerto l’occasione anche per fare il punto sul decennio che ci lasciamo alle spalle.
La salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro risentono molto delle condizioni socio-economiche vigenti, e in questo la crisi ha un effetto che potremmo definire benefico sugli infortuni e le morti nel lavoro. I primi sono passati dai 90mila del 2008 ai 60mila dello scorso anno. Le seconde, stando a quelle denunciate, sono scese dalle 1.450 del 2008 alle 1.100 del 2017. Dinamica opposta invece per le malattie professionali, che hanno una maggiore latenza e si manifestano in modo progressivo. I 30mila casi censiti dall’Inail nel 2008 sono raddoppiati nell’anno passato, a causa anche dell’allargamento delle malattie riconosciute come professionali.
Venendo alla situazione attuale, c’è un sostanziale assestamento delle diverse statistiche, ma il rapporto dell’Anmil evidenzia ancora delle forti criticità.
C’è, prima di tutto, un forte scollamento tra la normativa vigente e una sua piena applicazione. Nel suo rapporto annuale l’Inail ha evidenziato come nel 77% delle aziende ispezionate siano state riscontrate delle irregolarità, percentuale che corrisponde a 17.580 imprese.
Un dato dovuto, da una parte, a una complessità nell’espletamento degli obblighi in materia di salute e sicurezza denunciata dal mondo del lavoro, e, dall’altra, dal nanismo di larga parte del nostro tessuto produttivo. Come ha sottolineato Pierangelo Albini, direttore dell’area lavoro e welfare di Confindustria, il 45% delle imprese ha tra gli 0-9 addetti, ma in alcune aree del paese si arriva a picchi del 60% .
Questo crea non poche difficoltà alle imprese nell’attuare la normativa e nello star dietro all’innovazione tecnologica, contribuendo a ampliare il gap non solo tra aziende grandi e piccole, ma anche tra zone più o meno ricche. La conseguenza è la mancanza di una uniformità al livello nazionale, che secondo Confindustria dovrebbe essere supportata anche da una politica industriale di più ampio respiro.
Sempre aperta, poi, la questione su come la legislazione in materia di salute e sicurezza riesca a tenere il passo e a cogliere i cambiamenti in atto nel mondo del lavoro, sia sul versante contrattuale sia per quanto riguarda le trasformazioni tecnologiche.
La tecnologia può migliorare le condizioni materiali dei lavoratori, ha ricordato Angelo Colombini, segretario confederale della Cisl, sottolineando il grado di obsolescenza dei macchinari delle imprese italiane. Certamente, però, l’ammodernamento tecnologico non può essere visto come la panacea di tutti i mali.
Dalla Cgil arriva il monito del segretario nazionale Franco Martini, per il quale il “4.0” non è, automaticamente, sinonimo di maggior qualità del lavoro se non viene disciplinata e inserita nel recinto della contrattazione.
Il rapporto evidenzia infatti l’importanza della contrattazione e di un pieno coinvolgimento delle parti sociali nella cultura della sicurezza. Il contrasto a forme di dumping contrattuale non è un elemento secondario nella messa in sicurezza del luogo di lavoro, che non può prescindere da un pieno coinvolgimento della forza lavoro.
Tommaso Nutarelli
@tomnutarelli