Dice Sergio D’Antoni: “se avessimo fatto l’unità sindacale sarebbe cambiata la storia del paese, ma Cofferati non ha avuto il coraggio di fare quel passo”. Replica secco Sergio Cofferati: “a quel tempo sarebbe stato più facile dirti di si che dire di no’”.
Lo scambio arriva al termine di un faccia a faccia tra i due ex leader che hanno guidato rispettivamente la Cisl e la Cgil negli anni 90: gli anni della crisi economica più grave, della crisi altrettanto grave della politica, ma anche gli anni della concertazione, del drammatico e sofferto accordo con Giuliano Amato seguito poi da quello, fondamentale e pacificatore con Ciampi, della riforma delle pensioni con Dini, gettando le basi dell’attuale sistema previdenziale, e della discussione preventiva e puntuale coi diversi governi sulle scelte di politica economica e sociale.
In quegli anni, e forse pochi lo ricordano, si parlò molto di dar vita a un soggetto sindacale unico, fondendo assieme le tre confederazioni Cgil, Cisl e Uil. Un progetto fortemente perseguito da D’Antoni, destinato tuttavia a infrangersi contro il muro di opposizione della Cgil. L’occasione per ripercorrere quelle vicende l’ha offerta l’ultima sessione della scuola di relazioni industriali del Diario del Lavoro, organizzando un confronto tra i due grandi “ex’”. E sbaglierebbe chi la considerasse una sorta di “operazione nostalgia”: dal dialogo tra D’Antoni e Cofferati sono usciti spunti di riflessione validi anche oggi, anzi, più che mai oggi, in un paese che si trova nuovamente sull’orlo di una potenziale grave crisi economica e con una situazione politica inedita e delicata, dopo la vittoria di settembre che ha portato al governo la destra di Giorgia Meloni.
La differenza, rispetto al passato, è che stavolta il sindacato appare depotenziato, incapace di incidere sulle scelte della politica. E questo, secondo D’Antoni, dipende proprio dal non essere riusciti mai a realizzare quell’antico progetto unitario. “Volevo realizzare l’unita perché ero convinto che solo un sindacato autonomo e unitario avrebbe potuto restare protagonista in un quadro politico complicato come era all’epoca. E come peraltro è anche oggi”, spiega l’ex leader Cisl. “L’unità era nei fatti ogni volta che c’era un attacco al sindacato. Insieme abbiamo sconfitto Berlusconi sulle pensioni, portando dalla nostra parte Umberto Bossi, che gli tolse la fiducia e fece cadere il governo. In seguito, battemmo anche la Lega, che tentò di farsi il suo sindacato, ma noi organizzammo tre grandissime manifestazioni, e alla fine dovettero rinunciare. Insomma, abbiamo battuto prima Berlusconi via Bossi, e poi pure la Lega. E questo grazie alla forza della nostra unità”.
Il passo successivo e naturale sarebbe stato dunque quello di andare a una vera fusione: “feci una intervista al Corriere annunciando che ero pronto a sciogliere la Cisl e, nel caso, a fare il numero due di Cofferati nel nuovo soggetto unitario. Ricevetti moltissime proteste dalla nostra base, ma ci credevo davvero, ed ero pronto a trascinarmi dietro tutta la confederazione”. Non era pronta, però, la Cgil: Cofferati spiega che “l’ipotesi dell’unità sindacale era vissuta diversamente nei territori e nelle categorie. Questa disparità di valutazione ha allungato i tempi, e poi non era più il momento giusto”. Gli anni Novanta, del resto, erano anni di grandissime difficoltà; il sindacato svolse un ruolo essenziale per salvare l’economia, ma subito dopo entrò in crisi anche la politica: “In quelle condizioni era oggettivamente difficile far camminare un’idea, positiva in origine, come l’unità sindacale. Erano condizioni così fluide che era difficile garantire anche la nostra autonomia dalla politica”.
In realtà la vera differenza che impedì l’unione fu proprio quella che negli anni fu il cuore dell’attività sindacale: la concertazione. Per la Cgil era solo “un metodo”, ricorda D’Antoni, per la Cisl invece era “una politica”, fondamentale al punto di volerla inserire nella Costituzione: “c’era tra noi una differenza di base, e peraltro la stessa differenza c’è ancora oggi. Ma senza la concertazione non puoi governare certi fenomeni, come l’inflazione, e infatti aumentano le diseguaglianze. Del resto, quando è finita la concertazione, alla fine degli anni 90, è iniziata l’ubriacatura dell’uomo solo al comando: una illusione che viene regolarmente riproposta, e ogni volta è accompagnata da una delusione cocente”.
È vero, ammette Cofferati, “per noi la concertazione era un metodo, un metodo che funzionava. Ma è la politica che lo fa saltare, che cancella la procedura del confronto preventivo. È la politica che si rifiuta di riconoscere al sindacato un ruolo sulle scelte di economia e sociale. Eppure, avevamo dato esempi luminosi, nel 92, nel 93, anche nel 95: e tuttavia si è deciso di voltare pagina. Oggi, e da molto tempo ormai, nessun confronto preventivo si fa più, al massimo alle parti sociali spetta una informazione, a cose fatte”.
Ma è ancora alla concertazione che in qualche modo oggi si dovrà tornare. Il terreno sul quale sia Cofferati che D’Antoni concordano è sul ruolo che spetta assumere al sindacato di fronte alle temperie economiche e sociali che ci attendono nei prossimi mesi, ed è quello del patto sociale a tre. Le condizioni ci sono tutte, afferma D’Antoni, c’è l’inflazione, c’è la diseguaglianza, c’è la divaricazione sempre più profonda tra nord e sud: “il sindacato deve costruire la sua piattaforma e sfidare il governo su questi temi. E sono ottimista sulla possibilità di fare un accordo: soprattutto, credo sia una strada obbligata, e va percorsa in fretta, perché quando le persone iniziano a stare male davvero, le cose poi possono precipitare molto rapidamente”. Concorda Cofferati: “Il sindacato deve avere un suo progetto dettagliato sui singoli capitoli, finalizzato al bene del paese, e proporre al governo il confronto. E se non lo ottiene, allora si pensi alla mobilitazione. Ma, diversamente, da D’Antoni, io non sono troppo ottimista”.
Nunzia Penelope