Nel rapporto di previsione presentato dalla Confindustria emerge un quadro, con tante ombre che pian piano potrebbero offuscare luci che si stanno rivelando effimere. La modesta crescita del Pil dipende esclusivamente dal comparto dei servizi; tutti gli altri sono in diminuzione. La produzione industriale nel 2023 è diminuita del 2,4% e, nei primi otto mesi del 2024, di un’ulteriore 3,2% (rispetto ai mesi corrispondenti del 2023). Nel 3° trimestre rimane negativa, con una riduzione dello 0,5% acquisito ad agosto. Secca la contrazione dell’automotive (-17,9%). Dopo la robusta crescita degli anni scorsi gli investimenti crescono quest’anno di +0,5%, mentre sono previsto in calo di un -1,3% l’anno prossimo. Bene l’export netto che offre un forte contributo alla crescita del PIL nell’anno in corso (+1,2 punti percentuali) e resta marginalmente positivo nel prossimo anno (+0,1 punti) quando export e import di beni sono attesi ripartire a ritmi moderati favoriti da un miglioramento dell’attività manifatturiera mondiale e soprattutto europea (comunque sotto agli scambi mondiali). I prezzi del gas e dell’elettricità sono ancora più alti in Italia, sia rispetto agli altri grandi paesi europei come Francia e Germania, sia rispetto agli Stati Uniti e penalizzano pertanto la competitività delle imprese rispetto ai principali partner occidentali. Ma nel Rapporto viene affrontato e denunciato un altro aspetto che di solito viene messe da parte perché sono tanti i soggetti politici e sociali che a questo proposito espongono una coda di paglia grande come un covone: Il declino demografico che secondo il Rapporto accrescerà la carenza di lavoratori, che già oggi è un problema. Prima della pandemia vi erano difficoltà di reperimento per il 26% delle assunzioni previste (1,2 milioni), mentre nel 2023 la quota ha superato il 45% (quasi 2,5 milioni). Fattori quali la scarsa mobilità interna, la fuga di cervelli, la carenza di lavoratori extra-UE tendono ad accrescere il problema. Sulla base delle proiezioni demografiche Istat, il saldo naturale della popolazione residente in Italia è previsto ridursi di 1,5 milioni tra l’inizio di quest’anno e il 2028. Nonostante il saldo migratorio positivo con l’estero atteso pari a 1,2 milioni, la popolazione in età lavorativa sarà di 850mila unità inferiore. A parità di tasso di occupazione, l’offerta di lavoro tra 5 anni si ridurrà di 520mila unità. Una modesta crescita economica (del 4,9% cumulato nel 2024-2028) implicherebbe un fabbisogno di occupazione aggiuntiva di circa 815mila unità. Il mismatch, quindi, potrebbe ampliarsi di 1,3 milioni unità nel 2028. A livello territoriale, sarebbe più contenuto al Nord, comunque sotto la media nazionale al Centro, mentre si accentuerebbe nel Mezzogiorno. Difficile pensare di compensarlo con il solo aumento del tasso di occupazione, che dovrebbe salire di 3,7 punti percentuali. Assumendo un aumento del tasso di occupazione di due punti (obiettivo più verosimile sull’arco di un quinquennio), mancherebbero ancora 610mila unità che dovrebbero essere reperite con un ampliamento degli ingressi di lavoratori stranieri di circa 120mila unità in più all’anno, se si vuole evitare che la mancata disponibilità di lavoratori limiti – la constatazione è inquietante – la crescita dell’attività economica. Questa prospettiva mette in evidenza quello che possiamo definire il “paradosso dell’immigrazione”. L’Europa rischia di perdere le sue istituzioni democratiche e i suoi presìdi civili a causa del fenomeno della immigrazione clandestina dall’emisfero Sud del pianeta ma dello stesso tempo, senza un flusso costante, regolare e in crescita, si troverà – soprattutto l’Italia – a dover chiudere le fabbriche e i servizi per mancanza di manodopera. E non si tratterà solo di braccianti impiegati a raccogliere la frutta e gli ortaggi sotto il sole per molte ore al giorno o di persone impiegate in quelle mansioni che gli appartenenti ad una “Signoria di massa” non intendono più svolgere, Le professioni meno qualificate, infatti, rimangono il principale impiego per i lavoratori stranieri. Se a livello medio abbiamo un occupato straniero su 10, nel personale non qualificato il valore cresce al 29,2%. I naturalizzati trovano più facilmente impiego nelle professioni qualificate e tecniche; ma si allarga la componente del fabbisogno di stranieri anche in lavori sicuri e qualificati, come – per esempio – il personale infermieristico e di assistenza alle persone fragili. Il paradosso, poi, assume il tono della tragedia se si pensa che tra una ventina di giorni, negli Usa, nazione nata da un’immigrazione plurisecolare proveniente da ogni angolo della terra, la leadership del mondo occidentale si giocherà in larga misura sul tema dell’ immigrazione clandestina. Ma torniamo all’interno dei confini del Vecchio Continente e della nostra Penisola; anche correndo il rischio di banalizzare, con impostazioni ideologiche (accoglienza purchessia vs chiusura dei confini e dei porti), una questione molto complessa, è difficile rassegarsi al fatto che un carico di umanità disposto a rischiare la vita per raggiungere le nostre coste non sia utilizzabile per coprire quei buchi che la denatalità ha creato nel nostro tessuto sociale. E’ evidente che il conto non torna nelle politiche e nelle leggi sull’immigrazione le quali non consentono di trasformare in risorse, peraltro indispensabili, processi strutturali e inevitabili che vengono percepiti come drammi umani e sociali destabilizzanti.
Giuliano Cazzola