Il peana di entusiasmi che lo accompagna è certamente eccessivo, ma l’accordo di rinnovo del contratto dei metalmeccanici costituisce un evento importante e significativo. La chiusura di una vertenza durata oltre un anno e riguardante circa 1,6 milioni di lavoratori dell’industria manifatturiera – a conti fatti – manda un segnale positivo, anche a considerare solamente gli aspetti di carattere fisiologico, tra i quali va inclusa – dopo ben otto anni di polemiche, divisioni ed intese separate – la ritrovata unità d’azione delle federazioni sindacali. Viene ripristinato, in sostanza, un modus operandi che in questa categoria, depositaria di grandi tradizioni ed esperienza unitarie, sembrava svanito per sempre.
Certo, qualcuno potrebbe legittimamente chiedersi se quel Maurizio Landini che ha posto la sua firma sotto il verbale d’intesa sia lo stesso che – non è trascorso molto tempo – conduceva, in tutte le sedi una guerra ad oltranza alla Fiat-Fca, contestava da sinistra i vertici confederali e fondava la c.d. Coalizione sociale, una sorta di ircocervo, mezzo partito e mezzo sindacato, accendendo nuove speranze all’interno di una sinistra alla ricerca di se stessa. I maligni sostengono che Landini si sia rassegnato alla logica per cui ‘’Parigi val pure una messa’’; nel senso che, rientrando nei ranghi di un maggiore realismo, potrà aspirare a prendere il posto di Susanna Camusso quando scadrà il suo mandato. Con la firma dell’accordo da parte del segretario della Fiom il sindacato acquista un potenziale leader e si libera di un inutile e fastidioso demagogo. A chi scrive sembra che, tutto sommato, sia una cosa buona.
I metalmeccanici, dunque, ritornano a ‘’dare la linea’’, come è sempre accaduto nei loro momenti migliori proponendo ed ottenendo conquiste contrattuali che ‘’facevano scuola’’: la conquista e la difesa del diritto alla contrattazione articolate, l’inquadramento unico, le 150 ore, il riconoscimento dei consigli dei delegati, i diritti di informazione e consultazione di cui alla c.d. prima parte dei contratti, solo per ricordare gli aspetti più noti e significativi. In quale contesto è arrivato l’accordo del 26 novembre? L’apparato produttivo italiano ha accumulato un vero e proprio gap anche in materia di produttività e può recuperare uno spread di competitività, non solo con gli investimenti, ma anche attraverso un utilizzo più efficiente e moderno del fattore lavoro in tutti i suoi aspetti, riportando lo scambio tra retribuzione e prestazione laddove ‘’girano le macchine’’, favorendo la c.d. contrattazione di prossimità.
Il Governo ha rafforzato, nelle ultime leggi di bilancio, un quadro normativo ed economico che rende conveniente (mediante sgravi contributivi e fiscali) gli accordi sulla produttività e sulle iniziative di welfare aziendale. L’intesa tra Federmeccanica e sindacati si propone di spostare il peso degli oneri della contrattazione a livello d’azienda. Basta scorrere sia pur sommariamente i capitoli del verbale d’intesa per accorgersi che le risorse prevalenti (ad eccezione di quelle destinate ad iniziative di welfare necessariamente nazionali e di categoria, come la previdenza integrativa pensionistica e sanitaria) saranno distribuite nell’impresa. Il contratto nazionale conserva un ruolo di protezione del potere d’acquisto delle retribuzioni, ma eserciterà queste funzioni ex post ovvero una volta che sia emerso un differenziale effettivo con l’andamento delle retribuzioni. In sostanza, dovrebbe venir meno un’idea di contratto nazionale come momento ed occasione di un miglioramento retributivo per tutti i lavoratori senza che il sistema delle imprese ottenga qualche contropartita in cambio. Dovrebbe, in pratica, venir meno un’idea di contratto nazionale come momento ed occasione di un miglioramento retributivo per tutti i lavoratori senza che il sistema delle imprese ottenga qualche contropartita in cambio.
Anche nel caso del diritto soggettivo alla formazione, Fim, Fiom e Uilm hanno fatto tesoro di gloriose esperienze passate. Nel contratto del 1972 ottennero il diritto a 150 ore pagate dalle imprese per quei lavoratori che volevano terminare la scuola dell’obbligo. Si trattò di una misura che consentì a centinaia di migliaia di lavoratori di completare un ciclo di studi. Fu la scuola pubblica a doversi adattare a queste esigenze. Anche adesso c’è la necessità di preparare il mondo del lavoro ad affrontare la quarta rivoluzione industriale con il suo carico di tecnologia avanzata, interrompendo il solito andazzo del ricorso agli esuberi e ai prepensionamenti del personale anziano e non più qualificato. Certo è facile scrivere delle norme innovative; più difficile è farle vivere nella realtà dove si è costretti a misurarsi con le difficoltà e le inadeguatezze delle strutture, dei servizi e delle persone stesse. In questa circostanza, almeno, la più importante categoria dell’industria ha deciso di provarci. Ma dove e quando nasce questa storia? Merita di essere raccontata, magari a puntate.
Come scriveva Lucio Anneo Seneca in una lettera all’amico-discepolo Lucilio ‘’tutti i momenti che appartengono al passato si trovano in un medesimo spazio: si vedono su di uno stesso piano, giacciono gli uni insieme con gli altri, tutti cadono nel medesimo abisso’’. Chi scrive ha un’età che gli ha consentito di convivere con la storia, l’evoluzione e lo sviluppo del diritto del lavoro nel dopoguerra. Da studente, nei primi anni ’60 mi bastava volgere lo sguardo indietro di qualche anno per risalire ai primordi della Repubblica (forse anche al diritto corporativo). Poi, nel corso della vita, in tante diverse esperienze, mi sono sempre trovato ‘’colà dove tuonava il cannone’’ con un impegno ed una passione che hanno nutrito l’esistenza. Al di là di queste propensioni al fascino della memoria, naturali in un anziano signore, ritengo, tuttavia, che sia giusto e doveroso andare alla radice delle situazioni e dei problemi, seguirne il procedere nel corso dei decenni. Altrimenti, senza un bagno nella storia, anche il presente perde di significato.
Il diritto del lavoro non è incominciato nel 1970 con lo Statuto dei lavoratori, una legge che non è piovuta dal cielo, ma che è stato il frutto di circostanze e di azioni iniziate tanti anni prima, senza le quali il ciclo degli eventi avrebbe potuto prendere una differente direzione. Per comprendere la specificità del sistema di relazioni industriali in Italia i giovani di oggi – ammesso che siano interessati – devono risalire molto lontano: al tempo dei loro nonni. E i loro docenti a quello dei loro padri.
Alla fine degli anni ’50 si manifestò l’esaurirsi di un vecchio modello di contrattazione e l’apertura di uno nuovo. L’ossessione dell’efficacia erga omnes dei contratti – condivisa del resto dalle organizzazioni sindacali – aveva spinto il legislatore – che non era riuscito a dare attuazione a quanto previsto dall’articolo 39 della Legge fondamentale – ad individuare uno strumento giuridico alternativo per realizzare il medesimo obiettivo. Con la legge n.741 del 1959 (la c.d. legge Vigorelli) il Parlamento aveva attribuito al Governo la delega per emanare una serie di decreti contenenti la garanzia di un ‘’minimo di trattamento economico e normativo’’ per ogni categoria, conformando i singoli decreti al contenuto dei contratti collettivi esistenti al momento dell’entrata in vigore della delega. Ne risultò un ibrido con la forma di una legge sui minimi e la sostanza di un’estensione erga omnes dei contratti collettivi, attraverso il loro ‘’recepimento’’ legislativo: tutto ciò, al di fuori delle modalità e delle procedure previste nella Costituzione. Proprio per questi motivi l’intervento fu ritenuto ammissibile in ragione della sua temporaneità, transitorietà e straordinarietà. La Corte Costituzionale abrogò, infatti, la successiva disposizione di proroga del termine originariamente previsto, ritenendola in contrasto con la natura necessariamente transitoria e provvisoria di quel sistema di estensione dei contratti collettivi, diverso da quanto previsto dall’articolo 39.
In realtà, però, la lezione apparve molto chiara: gran parte dell’attività contrattuale svolta fino a quel momento era talmente rigida da poter essere trasferita in blocco in un corpo legislativo. Fu una sorta di canto del cigno di un assetto contrattuale ancora fortemente permeato dagli accordi corporativi, tanto che negli anni immediatamente successivi la qualità della contrattazione collettiva subì una forte accelerazione. A partire proprio dal 1959, quando alcune vertenze di carattere settoriale (siderurgici, elettromeccanici, ecc.) fecero intravedere l’apertura di una nuova fase, anche se successivamente un livello di contrattazione decentrata a livello di settore (che aveva fatto da battistrada al decentramento contrattuale), non riuscì mai a decollare. La svolta nel campo delle relazioni industriali – in senso costitutivo dell’ordinamento intersindacale, nella sostanza, tuttora vigente – ebbe luogo il 21 dicembre 1962 quando, nel quadro dell’accordo per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici delle aziende a partecipazione statale, venne sottoscritta da Intersind-Asap (l’associazione datoriale) e da Fiom-Cgil, Fim-Cisl e Uilm-Uil la famosa ‘’Premessa’’ regolatrice del riconoscimento della contrattazione aziendale e dei rapporti tra i diversi livelli negoziali, che venivano così a costituire un vero e proprio ‘’sistema’’. A raccontarla in breve la Premessa circoscriveva la possibilità di svolgere la contrattazione a livello aziendale ‘’per le materie per le quali nel presente contratto è prevista tale possibilità di regolamentazione nei limiti e secondo le procedure specificamente indicate’’. Agenti contrattuali erano i sindacati di categoria e le organizzazioni datoriali competenti nel territorio.
Veniva così valorizzata la struttura esterna al posto di lavoro (in pratica avvenne così fino allo Statuto dei lavoratori) a fronte della preclusione padronale nei confronti del sindacato aziendale, le cui prerogative, oltre alla contrarietà delle imprese e delle organizzazioni imprenditoriali, trovavano difensori prudenti – per tanti motivi comprensibili – anche all’interno delle confederazioni e delle federazioni sindacali. Infine, il tutto era tenuto insieme, da una ‘’clausola di tregua’’, contenuta nel punto c) e formulata ‘’in punta di penna’’, ma in modo abbastanza chiaro, tanto da creare non pochi grattacapi alla Fiom e alla Cgil di quegli anni, le quali, tuttavia, erano dirette da sindacalisti capaci di scorgere, anche nei compromessi, le soluzioni innovative. La ‘’clausola di tregua’’, intesa come l’introduzione di un ‘’dovere di influenza’’ del sindacato sui propri associati, fece spandere fiumi d’inchiostro ai giuristi di quei tempi, la maggioranza dei quali non aveva ancora compreso gli orientamenti su cui si andava formando il nuovo diritto sindacale. La riportiamo di seguito.
‘’c. Al sistema contrattuale così disciplinato corrisponde l’impegno delle parti di rispettare e far rispettare ai propri iscritti per il periodo di loro validità il contratto generale e le norme integrative aziendali da esse previste. A tal fine le Associazioni industriali sono impegnate ad adoperarsi per l’osservanza delle condizioni pattuite da parte delle Aziende associate, mentre le Organizzazioni dei lavoratori si impegnano a non promuovere e a intervenire perché siano evitate azioni o rivendicazioni intese a modificare, integrare, innovare quanto ha formato oggetto di accordo ai vari livelli’’.
Nonostante quell’intesa con le aziende a partecipazione statale, la Confindustria continuò a manifestare la propria ostilità nei confronti del decentramento della contrattazione. Per piegarne la resistenza vennero escogitati i c.d. protocolli d’acconto, che contenevano le parti qualificanti dell’accordo Intersind-Asap. Le aziende private che li sottoscrivevano erano esonerate dagli scioperi. Nel febbraio 1963 la Confindustria cedette, dopo che le confederazioni avevano proclamato ed effettuato uno sciopero generale di tutta l’industria in solidarietà con i metalmeccanici.
La ‘’Premessa’’ venne recepita anche nel contratto delle azione associate alla Confindustria, poi entrò, man mano, a far parte della contrattazione collettiva dell’industria. In quella circostanza, il settore metalmeccanico acquisì quel ruolo di avanguardia e di innovazione che riuscì ad esercitare per molto tempo sull’insieme del movimento sindacale e nell’evoluzione delle relazioni industriali, dei contenuti della contrattazione e delle forme organizzative del sindacato. Le federazioni dei metalmeccanici diventarono anche i soggetti trainanti di un processo di unità d’azione, prima, di riunificazione sindacale, poi, che segnò per lunghi anni la vita del movimento sindacale italiano.
Giuliano Cazzola