Il prossimo colpo di freno ci sarà giovedì. La Bce aumenterà i tassi di mezzo punto o ancora di 0,75? E, soprattutto, sulla base di quale ragionamento e di quale previsione? La seconda domanda è, forse, più importante della prima. Sono molti, infatti, gli economisti che guardano con un certo disagio alle ultime mosse della banca centrale, non perché contestino l’opportunità di una svolta rispetto ad una politica monetaria, a lungo molto accomodante, ma perché non convinti dai tempi e dalle misure della strategia Bce. Quasi che a Francoforte si fosse pronti a far saltare il banco, pur di riguadagnare la credibilità perduta nel non aver previsto il boom dell’inflazione e si reagisse, ormai, all’andamento dei prezzi del mese precedente, invece che ad una previsione di quelli futuri, quando – non prima di un anno – la stretta monetaria comincerà davvero a mordere sull’economia. Impegnati a “fare la faccia feroce” – secondo l’ordine dato alle truppe borboniche impegnate ad affrontare Garibaldi – i componenti più autorevoli del board Bce, come la tedesca Isabel Schnabel, ormai minacciano i governi di una stretta monetaria ancora più dura, se continueranno a largheggiare in sussidi ai consumatori per la crisi dell’energia, perché la priorità è frenare – ad ogni costo – la domanda. Mentre continuano ad agitare lo spettro di una spirale prezzi-salari, pur ammettendo, ogni volta, che non se ne vedono i segnali.
Non si vedono, perché non ci sono: le rivendicazioni salariali sono moderate e anche i contratti-guida appena firmati, come quello dei metalmeccanici tedeschi appaiono molto contenuti. E, dice chi ha studiato la materia, questi segnali non si manifesteranno neanche in futuro. Inflazione e salari crescono insieme, ma, sostengono gli analisti del Fondo monetario internazionale, “l’accelerazione dura poco e tutto torna come prima”. All’Fmi – ormai sempre meno il tempio dell’austerità e del thatcherismo che è stato a cavallo del secolo, ma non per questo accusabile di facile populismo – hanno preso in esame un centinaio di situazioni, negli ultimi 60 anni, in cui diversi paesi hanno registrato una crescita contemporanea, per tre trimestri su quattro, di prezzi e salari (la definizione standard di spirale prezzi-salari) e ne ricavano che, nella grande maggioranza dei casi, nei trimestri successivi sia inflazione che spinta salariale si stabilizzano. Lo stop all’inflazione consente il recupero dei salari reali (quelli che effettivamente incidono sui costi delle aziende e, dunque, sulle spinte all’aumento dei prezzi). Di fatto, inflazione, salari e occupazione si collocano ai livelli che erano prevedibili prima che si innestasse la breve spirale.
Questo, secondo lo studio, è vero anche nella ventina di episodi più simili a quanto avvenuto dopo la pandemia. Una singolare situazione in cui una crescita dei prezzi superiore a quella dei salari nominali (con riduzione, dunque, dei salari reali) si è accompagnata ad un calo della disoccupazione e a mercati del lavoro in tensione. Finanche in Italia, questo autunno, la percentuale di occupati ha superato il 60 per cento, un record storico. Tuttavia, dopo un rimbalzo, i salari nominali si stabilizzano. In conclusione, l’accelerazione dei salari nominali “non è necessariamente un segno che si sta instaurando la spirale prezzi-salari”.
L’Fmi si ferma qui. Tuttavia, un recupero di potere d’acquisto da parte dei lavoratori, dopo mesi in cui l’inflazione ha eroso i redditi, consente non solo di evitare tensioni sociali, ma anche di rianimare la domanda, impedendo che la recessione prevista per i prossimi mesi si allarghi. Su prezzi e salari, meno paranoia, per cortesia.
Maurizio Ricci