Una delle ultime volte che ho visto Emanuele Macaluso è stato qualche hanno fa, in metropolitana. A Roma, intendo, linea A. Mi sono appuntato in testa questa circostanza perché la fermata della metro più vicina alla casa dove Macaluso viveva, a Testaccio, era quella della Piramide, linea B. Nonostante la pressoché totale irrilevanza del fatto in sé, questa immagine di Macaluso imbarcato su un vagone della linea A si è trasformata, per me, in un ricordo. Forse perché mi pareva che di lui mostrasse due cose.
In primo luogo, la notevole sportività con cui portava i suoi novant’anni, andandosene in giro per la città ben dritto in piedi, nonostante le scosse della metro. In secondo luogo, un dato generazionale. Ovvero una mentalità acquisita in una certa epoca per cui, nonostante gli incarichi e gli onori che avevano segnato le tappe di una vita lunga e ricchissima come la sua, aveva conservato le abitudini di vita di una persona comune.
Voglio dire che Macaluso era stato Deputato e Senatore e aveva potuto dare del tu ad almeno un paio di Presidenti della Repubblica, ma, evidentemente, non gli sembrava strano andare all’edicola a comprarsi i giornali o servirsi dei mezzi pubblici. E non aveva quindi bisogno di fare quello strano esercizio che oggi viene spesso raccomandato ai dirigenti delle forze politiche di sinistra: quello di “mettersi in ascolto” per capire cosa diavolo passi nella testa dei cittadini. Macaluso viveva da sempre in mezzo alla gente, e il popolo non era quindi per lui un’entità estranea.
Un’altra delle ultime volte che ho visto Macaluso è stato nell’aprile del 2016, quando, in una sala del Senato, si tenne un convegno storico sulla figura di Baldina Di Vittorio, figlia maggiore del grande leader della Cgil e poi essa stessa dirigente dell’Udi, Deputata e Senatrice del Pci.
Macaluso era seduto alla presidenza, accanto a Valeria Fedeli, ex sindacalista Cgil e, in quel momento, Vice Presidente vicaria del Senato. Mi accostai al tavolo per salutarlo e, non essendo sicuro che lui si ricordasse di me, gli dissi “Ciao, sono Nando Liuzzi”. “Lo so”, mi rispose accigliato. “Non sono mica così vecchio da dimenticami i nomi.”
Siparietto a parte, che pure ci dice qualcosa sul suo carattere da burbero benefico, ho ricordato quel convegno perché mi aiuta a fissare due tratti distintivi dell’uomo Macaluso: il suo grande interesse per il mondo sindacale e, in particolare, l’ammirazione e il debito di gratitudine da lui sempre conservati verso Di Vittorio. Più un tratto distintivo dell’uomo Di Vittorio: la sua qualità di grande talent scout.
Lo stesso Macaluso ha raccontato più volte come andarono le cose. Nel 1947 Di Vittorio, che allora era alla testa della Cgil unitaria, fece un giro in Sicilia, terra scossa da durissime lotte agrarie e bracciantili contro cui si scatenava la violenza mafiosa. Macaluso, benché giovanissimo, era già a capo della Camera del lavoro di Caltanissetta. Dopo aver ascoltato un suo appassionato comizio, Di Vittorio gli propose di assumere l’incarico di dirigere la Cgil dell’intera Sicilia. Macaluso aveva solo 23 anni e la proposta gli parve sin troppo onerosa. Ma accettò e si spostò a Palermo.
Una decina di anni dopo, nel fatale 1956, un altro grande talent scout della sinistra, Palmiro Togliatti, lo strappò alla Cgil, facendone un dirigente del suo Pci: segretario regionale del partito, poi membro del Comitato centrale, parlamentare e, dal 1963, membro della Segreteria politica.
Se la felice intuizione di Di Vittorio avesse avuto un seguito più lungo, avremmo probabilmente annoverato il nome di Macaluso fra quelli dei nostri più grandi dirigenti sindacali. Così non è stato. Ma ripetutamente Macaluso ha rivendicato che l’esperienza che ha avuto per lui il carattere più formativo è stata quella fatta nel sindacato, a stretto contatto con i lavoratori.
Per primi, quando era ancora ragazzo, e studiava da perito minerario, ebbe modo di conoscere il minatori delle zolfatare. Poi fu la volta dei braccianti, impegnati in lotte durissime contro i proprietari assenteisti dei vecchi feudi. Quei proprietari che non avevano nessuno scrupolo a farsi difendere dalle armi dei mafiosi: numerosi furono i capilega della Federbraccianti uccisi a colpi di lupara. E una volta, nel settembre del 1944, lo stesso Macaluso, a vent’anni, rischiò di essere colpito dalle pistolettate esplose da un gruppo di mafiosi guidati da Calogero Vizzini che avevano preso di mira il dirigente comunista Girolamo Li Causi, mentre quest’ultimo teneva un comizio a Villalba. Li Causi fu ferito gravemente a una gamba e ci fu anche una dozzina di altri feriti. Macaluso ne uscì indenne, ma con un ricordo indelebile di che cosa fosse la lotta contro la mafia. Un argomento, questo, che ebbe modo di approfondire quando, a Palermo, conobbe da vicino le vicende dei metalmeccanici del cantiere navale, anch’essi in lotta contro il controllo che la mafia locale voleva esercitare sulle assunzioni dei lavoratori temporanei.
Eppure, nonostante queste esperienze “formative”, non c’era nulla di più lontano dall’idea di reduce di Emanuele Macaluso. Un uomo fondamentalmente e sinceramente semplice, nel senso che si metteva immediatamente al livello dell’interlocutore, senza assumere nessuna posa. Ma anche un uomo fondamentalmente e sinceramente complesso, nel senso di ricco di esperienze, passioni e pensieri, e di grande umanità.
Se c’è una cosa che non ricordo è invece quando ho avuto occasione di parlare con Macaluso per la prima volta. Ma immagino sia stato in merito a qualche articolo che ho mandato a due delle diverse testate giornalistiche da lui dirette: il mensile Le nuove ragioni del socialismo, da lui fondato nel 1996, e il quotidiano Il riformista, da lui diretto dal maggio 2011 al marzo 2012.
E cito qui queste due testate perché contengono due parole che riassumono il senso della sua azione politica: l’orizzonte del socialismo europeo, in cui secondo lui doveva iscriversi con chiarezza il futuro dei continuatori e degli eredi dell’opera del Partito comunista italiano, e la pratica del riformismo, inteso come lotta quotidiana volta a conquistare, passo dopo passo, un miglioramento concreto, effettivo, misurabile delle condizioni di vita e di lavoro delle classi lavoratrici.
Come si sa, Macaluso, oltre a essere stato un coraggioso dirigente sindacale, e un apprezzato uomo politico, è stato anche un grande giornalista, dotato di una testa sempre rivolta in avanti, immaginando mezzi di informazione capaci, quanto meno, di accompagnare le evoluzioni della società. Basti pensare che quando fu direttore de l’Unità, dal 1982 al 1986, fu lui a volere che sull’antico quotidiano “fondato da Antonio Gramsci” comparissero le dissacranti vignette di Bobo. Così come lo stesso Sergio Staino ha raccontato mercoledì scorso sulle colonne dell’attuale, nuova versione del Riformista.
Negli ultimi anni, quando né l’Unità, né Il Riformista erano più in edicola, Macaluso era venuto a patti con il web. Il Ministro Giuseppe Provenzano ha raccontato oggi, nel discorso che ha tenuto ai funerali di Macaluso, davanti alla sede nazionale della Cgil, che furono lui e Sergio Sergi a proporre allo stesso Macaluso di aprire su Facebook una pagina che potesse ospitare i suoi rapidi commenti quotidiani. Pagina che veniva poi veicolata anche su Twitter.
Per l’occasione, Macaluso aveva rispolverato la sigla em.ma, quella con cui, per anni, aveva siglato i suoi corsivi, prima su l’Unità e poi sul Riformista. Una sigla che, come mi ha confermato oggi lui stesso, fu inventata da Giorgio Frasca Polara quando lavorava come redattore a l’Unità.
In questi anni, in cui è diventato così difficile orientarsi, i pensieri siglati em.ma sono quindi diventati qualcosa di simile a un faro nella nebbia. E in molti li abbiamo seguiti e rilanciati lungo le vie della grande rete.
Se il Pci, in qualcuna delle sue evoluzioni, fosse ancora esistito, forse Macaluso avrebbe desiderato che fosse il Partito a organizzargli l’ultimo saluto. Ma Macaluso, che dopo lo scioglimento del Pci si era iscritto prima al Pds e poi ai Ds, era stato fin da subito molto critico verso l’idea stessa che aveva portato alla fondazione del Pd. Come aveva spiegato in un libro scritto a quattro mani con Paolo Franchi: Da cosa non nasce cosa.
Forse anche tornando col pensiero agli anni della sua militanza sindacale, Macaluso ha quindi preferito essere ricordato davanti alla sede nazionale della Cgil, in corso d’Italia.
Ebbene, concludendo il suo intervento odierno al funerale di Macaluso – quarto oratore dopo Provenzano, Marcelle Padovani e Aldo Tortorella – Maurizio Landini ha citato un ricordo che Macaluso si era portato dietro negli anni: quello della grande tristezza che si era impadronita di Di Vittorio quel giorno del 1948 in cui il carattere unitario della Cgil era andato in frantumi a causa della scissione. Un ricordo che ha consentito oggi allo stesso Landini di tornare a insistere sulla necessità di rinsaldare sempre più, anche – se non soprattutto – nel difficilissimo quadro odierno, l’unità fra Cgil, Cisl e Uil.
@Fernando_Liuzzi