Giorgia Meloni nel suo primo discorso, quello alla Camera dei deputati, non ha mai citato né la parola lavoro, né la parola sindacati. Il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, ci ha consigliato di badare non a quello che le persone non dicono, ma a quello che dicono, perché si corre il rischio di fare un processo alle intenzioni. Ed è vero, ma quelle parole sono importanti e in un discorso di grande spessore politico omettere di pronunciarle è un fatto da rimarcare. Certo, la neopremier aveva tante, troppe cose da citare nel suo discorso e di tutto non poteva parlare. Ma è un dato di fatto che non vi abbia fatto cenno, considerando che in fin dei conti viene dalla destra sociale e, in quanto tale, ha o dovrebbe avere un’attenzione specifica ai temi del lavoro e al sindacato. Del resto, era stata proprio lei, circa un mese e mezzo fa, all’assemblea di Coldiretti, a dire che il suo governo avrebbe avuto un’attenzione particolare verso le parti sociali, con le quali voleva attivamente collaborare. Attendersi un riconoscimento in occasione della prima uscita era quindi lecito. Così non è stato e ci sarà modo di verificare cosa ciò può significare.
Certo, più di tanto da un governo espressione della destra non è giusto aspettarsi, gli interessi preminenti sono altri e le prime decisioni assunte o promesse, la tregua fiscale, i condoni, l’innalzamento del tetto del contante, la flat tax fino ai 100mila euro, sono tutte indicazioni molto chiare. Peraltro, sono stati proprio i sindacati ad affermare nelle settimane precedenti il voto che ogni giudizio sarebbe stato espresso sul governo non in base al suo colore politico, ma ai fatti e alle decisioni che sarebbero venuti. Discorsi molto chiari a dimostrare che sarà diverso questo governo rispetto ai precedenti, sia perché è guidato da una donna, sia perché è espressione un partito mai stato in maggioranza, ma anche i sindacati sono profondamente cambiati.
La Cgil, in particolare, assomiglia poco alla confederazione di qualche anno fa. La fedeltà alla Costituzione, e la volontà espressa di essere pronti a difendere la Carta da qualsiasi attacco, fanno fede di una tradizione ferma. Ma l’affermazione di Maurizio Landini in merito all’equipollenza tra destra e sinistra non appartiene sicuramente alla storia della confederazione. La Cgil ha sempre avuto un rapporto molto stretto con la sinistra e con il Pd in particolare, adesso questo legame sembra essersi quanto meno allentato. Un dirigente sindacale ha chiarito che se lui in campagna elettorale fosse dovuto andare dai lavoratori, pure iscritti alla confederazione, a chiedere un sostegno al Pd si sarebbe sentito rispondere che questo partito negli ultimi venti anni ha portato ai lavoratori solo la lege Fornero e il Job Act. In realtà a dire il vero la Fornero era ministra del governo Monti, che con il Pd aveva poco a spartire, e il Job Act lo ha voluto Matteo Renzi, che era il segretario del Pd, è vero, ma poi è uscito e ha formato un altro partito. Ma la realtà è quella e peraltro è stato lo stesso Landini ad affermare che in questi anni “i governi, di destra o di sinistra, hanno sempre peggiorato la condizione dei lavoratori”, per cui a suo avviso l’unico consiglio da dare in vista delle elezioni era quella di andare a votare, perché “le urne vuote sono il vero pericolo per la democrazia”. In realtà, non tutto il Pd è sulle posizioni del segretario considerando che il segretario generale dei pensionati della confederazione, compagine molto forte e rappresentativa, con molto più di due milioni di iscritti, Ivan Pedretti, prima delle elezioni si è dissociato dalla posizione del suo segretario. “Io sono di sinistra, la Cgil è di sinistra, ha detto, siamo alternativi a una politica di destra per una questione di valori, non è uguale chi vince le elezioni, dobbiamo dirlo ai nostri iscritti”. La confederazione di Landini non è univoca, ma è sempre il segretario generale a dettare la linea.
Ma anche la Cisl, a ben vedere, non è la stessa del passato, anche recente. Non però perché ha cambiato linea, ma al contrario perché ha ribadito con grande forza tutti i valori di fondo della sua tradizione, senza troppo badare se questo comportasse un allontanamento dalle altre confederazioni. Luigi Sbarra, a fronte di un irrigidimento della Cgil, ha risposto con un arroccamento della sua organizzazione, mossa comprensibile, ma certamente tale da aumentare le distanze da Cgil e Uil, non certo a ridurle. E’ il frutto amaro dello sfilacciamento dell’unità sindacale, la quale a volte causa difficoltà, ma rappresenta sempre un valore assoluto perché rafforza la rappresentanza dei lavoratori. Tornare al passato in questi casi può sembrare la soluzione migliore, perché rinsalda i legami interni all’organizzazione, ma complessivamente rappresenta o può rappresentare un indebolimento della rappresentanza dei lavoratori.
Diverso ancora il caso della Uil che ha subito da poco più di un anno una profonda trasformazione. La Uil che eravamo abituati a conoscere era un sindacato abbastanza moderato, attento agli interessi dei lavoratori, soprattutto quelli salariali, alieno da colpi di teatro e di testa, aperto al dialogo, poco interessato, essendo il più debole, ai rapporti di forza. Con il nuovo segretario questa pratica è stata abbandonata, i toni si sono fatti più aspri, l’atteggiamento meno disponibile, pronto più di prima alla contrapposizione. Non c’è antagonismo nelle azioni della Uil di Pierpaolo Bombardieri, ma qualcosa che gli si avvicina pericolosamente. Una volta la Uil si distingueva perché cercava sempre di mantenere una posizione terza, badando a impersonare un ruolo di mediatore tra le posizioni delle altre confederazioni: da qualche tempo è passato a un ruolo diverso, alleandosi con la Cgil su posizioni più radicali.
Una serie di modifiche dei precedenti assetti che non potrà non pesare anche sull’andamento del confronto tra forza sociali e governo Meloni. Cercare indizi su cosa accadrà è pratica inutile, meglio aspettare, l’attesa non potrà essere lunga, i problemi premono.
Massimo Mascini