Dopo che i sindacati, con il protocollo dello scorso 31 maggio, avevano finalmente posto argine alla crisi di rappresentatività che li ha colpiti; la Corte Costituzionale, con la sentenza del successivo 3 luglio in tema di rsa, ha riportato indietro le lancette del tempo e ricreato incertezza.
Per capirne la ragione, bisogna prendere la mosse dalla finalità che il protocollo ha perseguito, perché è stata una, precisa ma messa poco in risalto.
In parole semplici: ancorare la rappresentatività sindacale al consenso degli iscritti contro la regola che, per lunghi anni, ha imposto ai sindacati di riconoscersi rappresentativi a vicenda e, in questo modo, porre un argine alla mancata attuazione dell’art. 39 della Costituzione.
E questo perché, dal 2009, un sindacato ha dichiarato guerra agli altri, mandato all’aria la regola del reciproco riconoscimento e, in una pericolosa gincana, esposto sé e gli altri al rischio di scomparire per la perdita di rappresentatività.
Ebbene, il protocollo ha ad esempio legittimato a negoziare e sottoscrivere ccnl i sindacati che raggiungono una soglia di consenso del 5 %, come media tra le percentuale degli iscritti e la percentuale di voti ottenuti nelle elezioni delle rsu.
Ha promosso, su questi presupposti, la definitiva transizione dal sistema di rsa a quello delle rsu, costituite per mezzo di elezione diretta dei lavoratori.
O, infine, condizionato l’efficacia generalizzata dei ccnl sottoscritti dai sindacati rappresentativi nella misura del 50% + 1, al placet (certificato) dei lavoratori.
E così, il protocollo, a ben vedere, ha dato ai lavoratori più potere decisionale per consentire ai sindacati di conquistarne una volta per tutte il consenso, per questa via guadagnare rappresentatività dal basso, e quindi sopravvivere senza a tutti i costi riconoscersi rappresentativi l’uno con l’altro.
Ora, se è chiara la finalità del protocollo, sarà altrettanto chiaro che la sentenza della Corte Costituzionale, sull’ art. 19 dello Statuto dei lavoratori, ne ostacola la realizzazione.
Per sanare un’anomalia che, a detta di molti, avvelenava il nostro sistema di relazioni industriali, la Corte Costituzionale ha infatti legittimato alla costituzione di rsa anche i sindacati non firmatari del ccnl che, però, devono aver negoziato.
E così, ha rinvigorito il ruolo delle rsa che, a ben vedere, più che ai principi di democrazia introdotti dal protocollo del 31 maggio, rispondono alle logiche di accreditamento del vecchio assetto di contrattazione collettiva.
Ed infatti, le rsa non sono certo elette dai lavoratori, ma costituite dagli stessi nell’ambito di sindacati riconosciuti rappresentativi da altri sindacati.
Insomma, tra la Corte Costituzionale e i sindacati è andato in scena un valzer che, se dovesse finire con le note che piacciono alla Corte, esporrebbe i sindacati, come è accaduto dal 2009, al rischio di scomparire ancora una volta per la perdita di rappresentatività.
A questo punto, si tratta allora di individuare il compromesso tra l’autonomia dei sindacati e la voce del Giudice delle leggi.
La partita potrebbe giocarsi a monte. Ad esempio, sulla selezione dei sindacati ammessi a partecipare alla negoziazione del ccnl.
E così, il diritto a costituire rsa potrebbe estendersi ai sindacati che partecipano alla negoziazione del ccnl, sulla scorta della sentenza della Corte Costituzionale, ma che raggiungono la soglia del 5% prevista dal protocollo del 31 maggio.
La soluzione sembra scontata ma non lo è. Per due ragioni.
In primo luogo, perché la Corte Costituzionale si è pronunciata sulle rsa senza darsi pensiero dello sbarramento introdotto dal protocollo, ma avendo piuttosto il mente la vecchia regola dell’accreditamento.
In secondo luogo, perché tale soluzione (ma prima ancora lo sbarramento del 5%) rischia una censura di costituzionalità in nome del principio di libertà sindacale che, malgrado orientamenti giurisprudenziali di segno contrario, dovrebbe consentire a tutti i sindacati di partecipare ai tavoli negoziali sugli accordi collettivi.
Sicuramente, la strada è in salita. Ma, trovare un compromesso è necessario per non paralizzare la crescita, che passa anche per un ammodernamento del nostro sistema di relazioni industriali.
Si tratterebbe, in fondo, di dimostrare che il nostro Paese è ancora in grado di produrre buone soluzioni, piuttosto che solo sterili scontri di potere.
Ciro Cafiero
Collaboratore della cattedra di Diritto del lavoro presso la Luiss