L’Unione europea, nel triennio appena passato, ha subito una frenata inaspettata dal referendum britannico che ha decretato il leave del Regno Unito, lasciando nella squadra europea la sola Irlanda. La frattura, che formalmente si realizzerà nella primavera 2019 dopo il prescritto periodo di Brexit negotiations, ha prodotto negativi effetti economico- finanziari interni all’UK, ma soprattutto si è abbattuta sulle già fragili Istituzioni europee, inducendo nuovi o latenti rigurgiti nazionalistici anche in numerosi altri paesi membri dell’Unione. Le ondate migratorie hanno favorito l’emergere di questi nazionalismi che si sono tradotti in un forte apprezzamento dei partiti c.d. sovranisti, sostenitori dell’idea di un’Unione Europea minimalista e flessibile, dotata di poteri residuali di indirizzo e sorveglianza economica e di competenze regolative e sanzionatorie più limitate e circoscritte.
Questo scenario politico, economico e industriale di crescita e innovazione tecnologica, più contenuto rispetto a quello registrato in altre parti del mondo e drammaticamente declinante in Italia, ha determinato un rallentamento delle politiche sociali europee e delle correlate iniziative sia di hard sia di soft law, con un progressivo ripiegamento delle stesse entro i confini già definiti e sperimentati (con alcune importanti eccezioni quali la nuova direttiva sul distacco transnazionale n. 2018/957/UE del 28 giugno 2018). Ci soffermiamo allora sull’accordo Ue-UK, e quali sono i possibili scenari da qui alla scadenza ultima per Brexit, e soprattutto quali i possibili rischi per l’Italia, dove sirene irresponsabili pensano di trascinarci in fondo al dirupo mettendoci in conflitto con la Commissione per le note perdenti manovre di bilancio.
È bene infatti ricordare che all’uscita dell’ UK hanno pesato, e dunque contribuito molto positivamente, le regole già scritte nei Trattati europei, che nei casi di uscita di un paese dall’Ue prevedono un negoziato centralizzato e guidato dalla Commissione. Ma i singoli stati avrebbero comunque potuto “sabotare” il processo se, per esempio, non avessero raggiunto un accordo preciso sul mandato negoziale da conferire alla Commissione nelle varie fasi delle trattative. Cosa che invece hanno fatto. E meno male, perché la Brexit non è affatto conclusa e restano passaggi fondamentali. L’Ue è rimasta inflessibile sulle proprie red lines, a partire dal fatto che a May non è stato concesso di fare cherry picking, ovvero di conservare i benefici dell’Ue (per esempio l’accesso al mercato unico) senza farsi carico dei suoi costi (contributi finanziari al bilancio, libertà di circolazione delle persone e dei capitali, incluso un apparato regolatorio troppo ingombrante in alcuni settori). In estrema sintesi: o si è dentro o si è fuori.
Il governo tory da tempo aveva scelto la strada di uscire, salvo poi dover trovare un escamotage per mantenere uno stretto rapporto con l’Ue ed evitare un confine fisico tra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord. Dalla data del referendum a oggi la sterlina ha perso oltre il 7 per cento nei confronti dell’euro e ancora di più nei confronti del dollaro, sebbene quest’ultimo si sia, a sua volta, svalutato nei confronti della moneta europea. La conseguenza immediata è stata la crescita del tasso d’inflazione, che ha toccato quota 3,1 per cento. Quasi il doppio delle medie europee. Ne è derivata una decisa contrazione dei consumi, visto che i salari sono rimasti bloccati. E che oggi si collocano all’ultimo posto tra i 32 Paesi dell’Ocse. Prospettiva che non si è accompagnata a un aumento del tasso d’occupazione. Il cambiamento dello scenario internazionale ha poi avuto un impatto negativo su un’economia, come quella inglese, che si era già isolata dal contesto europeo. A dimostrazione di quanto sia importante appartenere ad un’area monetaria più vasta, capace di ammortizzare eventuali shock provenienti dall’estero.
Se gli inglesi hanno dovuto imparare a loro spese quanto possa divenire pesante il costo dell’isolamento, evitiamo di percorre la stessa strada in Italia. La cui struttura complessiva, non solo dal punto di vista economico e finanziario, non è certo comparabile con quella che si è sviluppata al di là della Manica. Il problema maggiore per Roma proviene dal rischio contagio, ovvero la possibilità che eventi che aumentano l’incertezza sui mercati si ripercuotano sulla percezione della solidità dell’Italia. In un momento in cui lo spread tra Btp italiani e Bund tedeschi è salito da quota 150 a maggio andando a 300 negli ultimi mesi, qualsiasi “disruption” in Europa rischia di far aumentare la volatilità dei rendimenti, complicando ulteriormente un quadro già critico. n piu’ l’Italia ha un consistente surplus commerciale (oltre 10 miliardi l’anno) con la Gran Bretagna, peraltro in aumento negli ultimi anni. L’ipotesi hard Brexit, che non è ancora del tutto superata in quanto si attende il passaggio di metà dicembre per ratificare l’accordo a Westmister, avrebbe dunque un impatto sull’economia italiana, in particolare su alcuni settori di punta del nostro export, come la meccanica strumentale, il tessile, il chimico e l’agroalimentare. Incrociamo le dita perché il fumo di Londra non ci rechi danni di più di quelli che l’attuale governo ci ha portato.
Alessandra Servidori