È uscito “Lo Stato innovatore”, traduzione italiana di uno stimolante volume di Mariana Mazzucato. Nel libro si mostra quale sia stata la funzione del governo americano nel creare le condizioni che hanno favorito quella rivoluzione tecnologica di cui la Apple è il caso più noto. Il Diario del lavoro ha incontrato l’autrice, docente di Economia dell’innovazione all’università del Sussex, per chiederle quale sia stato il senso e lo scopo della sua ricerca.
di Fernando Liuzzi
Il suo volto è apparso per una delle prime volte sui teleschermi italiani la sera di lunedì 16 giugno, quando è stata ospite di Lilli Gruber nel corso di una puntata di “Otto e mezzo”. Puntata in cui si è scontrata, esprimendo con garbo le sue solide convinzioni, con un Francesco Giavazzi che, stando alle reazioni comparse sui social media, è uscito nettamente perdente dal ring televisivo. La mattina aveva partecipato a un seminario tenuto presso la facoltà di Economia dell’Università di Roma 1, in occasione dell’uscita di Lo Stato innovatore, traduzione italiana di un suo libro pubblicato in inglese l’anno scorso e di cui si è molto dibattuto tra Regno Unito e Stati Uniti. Nel pomeriggio, un incontro nella sede di Laterza, la casa editrice che si è assunta il compito di pubblicare il libro nel nostro paese.
Sono state queste le tappe del blitz compiuto a Roma da Mariana Mazzucato (www.marianamazzucato.com), una giovane e brillante economista originaria di Padova ma trapiantata da tempo in Inghilterra, dove insegna Economia dell’Innovazione allo Spru (Science and Technology Policy Research), fondato dal famoso studioso dell’innovazione Christopher Freeman, presso l’Università del Sussex. Il “Diario del lavoro” l’ha incontrata nel corso del suo breve e denso soggiorno romano.
Professoressa Mazzucato, nel sottotitolo programmatico del suo libro dichiara di voler “sfatare i miti della contrapposizione tra settore pubblico e settore privato”. Cosa vuol dire? O meglio: qual è lo scopo del suo lavoro?
“Lo scopo del mio libro è quello di combattere una serie di luoghi comuni, tra cui quelli secondo cui l’impresa privata sarebbe di per sé una forza innovativa, mentre lo Stato sarebbe solo capace di opprimere l’iniziativa privata o di sperperare il denaro dei contribuenti. Io penso, invece, che per avere una crescita economica occorre che lo Stato svolga un ruolo strategico, cioè appunto quello di indirizzare l’innovazione. D’altra parte, lo Stato non può realizzare i prodotti che incorporano i frutti di questa innovazione. Qui è necessario il ruolo dell’impresa privata che immagina i prodotti specifici che possono incontrare una domanda ancora inespressa e li realizza grazie alle conquiste tecnologiche frutto di una precedente e, probabilmente, prolungata attività di ricerca e sviluppo.”
“In sostanza, io non credo che vi sia alcuna necessaria contrapposizione tra Stato e impresa privata. Penso, al contrario, che l’impresa privata possa e debba essere protagonista di una qualsiasi corretta azione di politica industriale.”
Bene. Però il titolo dell’edizione italiana del suo libro, Lo Stato innovatore, non dice molto. Certo il titolo originale, The Entrepreneurial State, è difficile da tradurre nella nostra lingua. Perciò le chiedo: cosa voleva dire con questa singolare espressione?
“In inglese l’aggettivo entrepreneurial dà l’idea di qualcuno che si assume un rischio. E secondo me è proprio questo ciò che deve fare lo Stato. Favorire e guidare l’innovazione implica ovviamente l’assunzione di un rischio, perché non si può sapere prima quali saranno i risultati. A differenza del venture capital, che è diventato sempre più impaziente (e speculativo), ovvero si aspetta di avere risultati positivi entro un arco di tempo che non supera i tre anni, lo Stato, ad esempio attraverso banche di investimento costituite ad hoc, può invece permettersi di essere paziente. Cioè di attendere più a lungo il ritorno sugli investimenti effettuati.”
“Usando il termine entrepreneurial volevo poi suggerire anche una seconda idea, che discende dalla prima. Proprio perché si assume dei rischi, secondo me lo Stato ha diritto di condividere parte dei profitti ottenuti dall’impresa che ha goduto di un prestito “paziente”. Non ci sarebbe niente di male se un suo prestito venisse remunerato. Con queste risorse potrebbe, ad esempio, tamponare le falle eventualmente prodottesi in altri progetti di innovazione che non fossero stati coronati dal successo. Alla fine di un processo così concepito, il tax payer – il cittadino contribuente – non avrebbe buttato via neanche un centesimo del suo denaro, mentre lo sviluppo economico del paese in cui vive sarebbe stato favorito dal successo delle imprese innovative che avrebbero goduto dell’aiuto fornito, in modo diretto o indiretto, dai poteri pubblici.”
Adesso apriamo il libro. Mi è parso particolarmente originale il quarto capitolo, quello sul ruolo innovativo dello Stato nel caso americano, in cui parla – tra l’altro – della mitica Darpa, la Defense Advanced Research Projects Agency, e, ancor più, il quinto capitolo, intitolato Lo Stato dietro l’iPhone. Lei abita in Inghilterra. Perché tanto spazio del suo libro è dedicato agli Stati Uniti?
“Beh, innanzitutto devo dire che, dall’età di 5 anni, sono cresciuta negli Usa. A Londra mi sono trasferita solo nel 2000, per ragioni di lavoro. Ma, a parte questo dato biografico, il punto è che in Europa, in questi anni, si è sentita risuonare come una cantilena la formula “meno Stato, più mercato”, come se questa formula potesse indicare la via per tornare a una fase di sviluppo. Mi è parso quindi utile studiare ciò che, dalla fine degli anni Cinquanta, con la fondazione della Darpa, è via, via accaduto negli Stati Uniti, fino al lancio dei prodotti più recenti di un’impresa innovativa come la Apple. In quello che Lei chiama il caso americano, dietro a un continuo processo di innovazione, che è stato volano di sviluppo, c’è stata la spinta di una mano visibilissima, quella del Governo, delle sue Agenzie, come la Nasa, di società di investimento, come la Sbic, di programmi come lo Sbir e, quindi, di ricerche condotte in collaborazione tra settore pubblico e settore privato in laboratori come i Bell Labs, della AT&T, o lo Xerox Parc.”
“In particolare, la Apple ha ricevuto un grande sostegno – diretto e/o indiretto – da parte dello Stato sia come investimenti diretti durante la sua prima fase di vita, che come accesso a tecnologie frutto di programmi di ricerca promossi dal Governo o come politiche fiscali e commerciali concepite per sostenere le aziende americane.”
Concludendo, professoressa Mazzucato, chi è il grande economista cui dobbiamo tornare oggi a guardare: Keynes o Schumpeter?
“A tutti e due, naturalmente. Keynes ci spiega perché bisogna agire per stabilizzare la domanda aggregata. Il settore privato è, per così dire, troppo volatile, e si muove sempre in senso prociclico. Ne segue che, quando gli investimenti sono insufficienti, il Governo deve darsi da fare per colmare il vuoto. Insomma, Keynes ci fa capire quanto sia necessario e quanto possa essere decisivo il ruolo del Governo in campo economico, specie per fronteggiare le crisi. Però non ci dice abbastanza su cosa il Governo stesso debba fare in periodi di forte espansione economica. Il lavoro di Schumpeter – e ancor più quello degli economisti che l’hanno seguito, i cosiddetti schumpeteriani – ci dice, per usare una celebre immagine, che non basta scavare delle buche e poi riempirle: occorre dare una direzione allo sviluppo. E di questo c’è bisogno anche nelle fasi espansive. Infatti, tutti gli investimenti di cui parla il mio libro – tipo quelli che hanno portato alla nascita di Internet – sono stati fatti in periodi di crescita. Peraltro, la direzione che va data allo sviluppo non è solo quella che favorisce direttamente l’innovazione, ma anche quella della creazione delle condizioni che favoriscono l’innovazione, sviluppando l’istruzione e la formazione del capitale umano.”
“Questo lo dico per spiegare perché, secondo me, è oggi necessario utilizzare il contributo che ci può venire da entrambi. Ma, per quanto riguarda i rapporti fra questi due pensatori, che talvolta vengono contrapposti in modo erroneo, aggiungo che suggerirei di rileggere l’interessantissima recensione che Schumpeter fece alla Teoria generale di Keynes. Mostra che lo stesso Schumpeter non era un keynesiano nel modo più assoluto. Era molto più conservatore.”
L’intervista è finita e il pensiero dell’intervistatore corre alle ultime righe della Teoria generale, quelle in cui il maestro di Cambridge sostiene che le idee “degli economisti e dei filosofi politici”, giuste o sbagliate che siano, “sono più potenti di quanto comunemente si ritenga”: più potenti anche degli interessi costituiti. Ebbene, negli anni che stiamo vivendo è accaduto di nuovo che, come ai tempi di Keynes, nella nostra vecchia Europa il panorama economico-politico sia dominato da idee spesso sbagliate, come quelle che hanno motivano i sostenitori di un cosiddetto rigore che, in pratica, ha finito per essere nemico dello sviluppo. O come quelle di chi ha sostenuto la necessità di una rinuncia da parte dello Stato a qualsiasi iniziativa volta a indirizzare l’attività economica. In questo contesto, gli studi effettuati e le polemiche aperte da Mariana Mazzucato portano indubbiamente una ventata di aria fresca.
@Fernando Liuzzi