Il governo ha ampliato a dismisura il numero dei contribuenti che possono giovarsi di una flat tax ridotta, ha tagliato il cuneo fiscale, ha ridotto a tre le aliquote Irpef, ma la pressione fiscale è cresciuta al 40,5 per cento nel terzo trimestre del 2024, lo 0,8 per cento in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha spiegato questo risultato apparentemente contraddittorio con il forte aumento dell’occupazione dipendente: più occupati, maggior numero di buste paga e, di conseguenza, più entrate fiscali. A parte il fatto che la crescita delle entrate sarebbe dovuta ancora una volta alle tasche dei lavoratori dipendenti, che insieme ai pensionati già garantiscono oltre l’85 per cento del gettito Irpef e, in connessione, anche gran parte delle addizionali regionali e comunali, in questo caso vi è una ragione aggiuntiva: il combinato disposto di inflazione e di rinnovi contrattuali ha fatto scattare la tagliola del fiscal drag, meccanismo molto conosciuto in Italia negli anni Settanta e Ottanta, quando i prezzi crescevano a doppia cifra, tanto da far scattare adeguati correttivi, poi bloccati per evitare la moltiplicazione degli input per la crescita dei prezzi al consumo.
Qualche dato per farsi un’idea. Nel 2022 la crescita media dei prezzi al consumo per l’intera comunità nazionale fu pari all’8,1 per cento. Nel 2023, alla precedente spinta si aggiunse un altro 5,7 per cento. In soli due anni dunque le retribuzioni hanno perso poco meno del 15 per cento del loro valore in termini di potere di acquisto, ma il fisco ha trattenuto sulle buste paga una quota di imposte come se il valore di quelle retribuzioni fosse rimasta uguale a prima. Non solo. Tra il 2023 e il 2024 sono scattati alcuni rinnovi contrattuali, largamente insufficienti a coprire la perdita di valore dei salari, ma che comunque hanno portati aumenti. Tanto per dire, come ha segnalato l’Istat, l’indice delle retribuzioni contrattuali orarie a settembre 2024 è cresciuto del 3,7 per cento rispetto a settembre 2023; l’aumento tendenziale è stato del 4,6 per cento per i dipendenti dell’industria, del 4,1 per quelli dei servizi privati e dell’1,6 per i lavoratori della pubblica amministrazione. Ma questo pur insufficiente recupero ha fatto scattare la seconda tagliola per tutti i lavoratori con un reddito a ridosso dei 28 mila euro lordi l’anno, soglia oltre la quale scatta la seconda aliquota dell’Irpef al 35 per cento, contro il precedente 23, facendo crescere più che proporzionalmente il prelievo fiscale.
In un recente lavoro tre economisti de LaVoce.info (Marco Leonardi, Luisa Loiacono, Leonzio Rizzo e Riccardo Secomandi) hanno calcolato che complessivamente il fiscal drag abbia pesato per 14 miliardi di euro nel 2022, anno per il quale già sono disponibili le dichiarazioni fiscali suddivise per classi di reddito, di cui 9 a carico di dipendenti e 3,9 a carico dei pensionati; un ammontare che si è rinnovato di anno in anno fino ad oggi. Secondo gli stessi economisti oggi siamo tra i 16 e i 17 miliardi.
Dal punto di vista tecnico non si possono paragonare queste somme a quelle impiegate dal governo per ridurre il cuneo fiscale (o meglio per mantenerlo) e per mantenere l’Irpef a tre aliquote. Ma dal punto vista dei flussi di risorse e di potere di acquisto dei dipendenti e dei pensionati presi nel complesso il paragone è più che lecito.
Non solo. Più che lecita è anche una ulteriore riflessione: il fiscal drag è un fenomeno che, a causa dell’inflazione, colpisce più degli altri i contribuenti sottoposti a un prelievo fiscale progressivo. Oggi per l’Irpef si paga il 23 per cento del reddito fino a 28 mila euro lordi annui, il 35 per cento sulla parte di reddito annuo che va da 28 a 50 mila euro, il 43 per cento sulla parte di reddito che va oltre i 50 mila euro lordi l’anno.
Ma, nonostante il dettato costituzionale che vorrebbe che tutti fossero sottoposti a un prelievo progressivo, quali redditi e quali contribuenti oggi sono pagano davvero in base all’Irpef a tre aliquote? Vale la pena di ricordare qualche dato, anche se gli elenchi annoiano sempre un po’, perché può essere illuminante.
Pronti? Via. Le nuove partite Iva dei giovani pagano il 5 per cento su una parte del fatturato; sull’ammontare degli affitti concordati si paga solo il 10 per cento dell’incasso, non importa se il contribuente affitti così una casa o gli appartamenti di dieci palazzi. Sugli interessi di Bot, Cct e Btp si paga solo il 12 per cento, sia che tu abbia investito 5 mila euro di risparmi, sia che ne abbia investiti 500 mila. Gli autonomi e le piccole imprese con partita Iva a forfait pagano solo il 15 per cento sul 75 per cento del fatturato fino ad 85 mila euro l’anno (uno dei primi provvedimenti del governo delle destre); sugli affitti non concordati si paga il 21 per cento; sui redditi di impresa si paga un secco 24 per cento (più il 4 per cento di Irap); sui capital gains si paga il 26 per cento secco (il 27 sugli interessi pagati dalle banche ai correntisti). Senza contare la carica delle flat tax contenuta anche nell’ultima manovra (5 per cento sugli straordinari degli infermieri e sulle mance nel turismo; 10, 12 e 15 per cento sui redditi di autonomi e piccole imprese che hanno accettato il concordato preventivo biennale; il 15 per cento sui redditi autonomi fino a 35 mila euro se prodotti da lavoratori che hanno già un reddito da dipendenti).
Come se non bastasse, poi, l’assenza di progressività si perpetua anche nelle successioni. Basti pensare che sull’ammontare dell’eredità i figli del defunto pagano il 4 per cento secco sulla parte di patrimonio che supera per ciascun erede il milione di euro di valore catastale. Quattro per cento sia che lo si debba pagare su mille euro sia che lo si debba pagare su un patrimonio di un miliardo di euro. Se poi il patrimonio che passa di mano è sotto forma di quote di maggioranza di imprese, gli eredi diretti, cioè i figli del defunto, non pagano nulla, se si impegnano a governare l’impresa per almeno 5 anni. Progressività zero, con buona pace di ogni discorso sul merito tanto in voga quando il governo voleva tagliare, come poi ha fatto, il sostegno ai più poveri conosciuto come reddito di cittadinanza: evidentemente il merito va richiesto ai figli dei poveri ma non ai figli dei più ricchi.
In conclusione, sottoposti all’Irpef progressiva sono solo dipendenti, pensionati, autonomi con fatturato superiore ad 85 mila euro lordi l’anno (o che non hanno scelto il forfait) e proprietari di immobili locati ad ufficio o a società. Tutto il resto è fuori dalla progressività stabilita dall’articolo 53 della Costituzione: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Con buona pace dell’articolo 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
Roberto Seghetti